domenica 16 giugno 2013

La Grande Bellezza

Toni Servillo


Roma sopravvive a se stessa da migliaia di anni, portandosi in giro esausti simulacri e glorie in disfacimento. Fin dall'antichità i suoi rutilanti baccanali hanno attirato da ogni parte del mondo falene impazienti e cavallette voraci. Roma l'imperiale, la barocca, la papalina, la meretrice crudele. Roma, a cui pochi possono resistere.

C'è questo e molto altro nell'ultimo film di Paolo Sorrentino La Grande Bellezza.

Attraverso la voce di Jep Gambardella, lo scrittore di un solo libro, interpretato da un Toni Servillo al massimo della forma, il film dispiega un'umanità circense, triste e senza redenzione in una città dai contorni sontuosi. 
È la morte la grande protagonista della storia; una morte che non riesce ad essere commovente o tragica ma solo melodrammatica e gratuita.
L'eros dei protagonisti non è una pulsione di vita, quanto piuttosto una fuga disperata dal sepolcro che li chiama. Per coprire questa voce si usano la musica martellante e la conversazione vacua, il bla bla bla a cui il protagonista accenna più di una volta nel corso del film.
Un film che è lungo e lento, va detto, ma che scorre come il Tevere, pieno di putridume sotto la superficie ma ancora in grado di riflettere i raggi del sole al tramonto, per regalare allo spettatore la cartolina rassicurante della Città Eterna. 
I molti interpreti sono scelti con cura, a cominciare da una Sabrina Ferilli perfettamente calata nella parte della spogliarellista burrosa e over 40, giù giù fino a una Serena Grandi nella parte di se stessa - pietosa caricatura del giunonico oggetto del desiderio ruspante anni '80 - passando per Carlo Verdone, fallito e patetico e Isabella Ferrari finalmente senza botox in faccia e bellissima, e ci rimandano un affresco della nostra epoca. Un'epoca marchiata dall'infamia del successo a ogni costo, dalla rincorsa a una faustiana eterna giovinezza affidata ai cialtroni con la siringa. 
Jep è il nocchiero che ci guida in questo inferno metropolitano di palazzi principeschi e principesse centenarie, di nobili in affitto, di sensazioni glitterate e lo fa con l'accento disilluso di chi ha visto tutto, provato tutto, si è annoiato di tutto. 
Gambardella non scrive libri perché «Roma ti fa perdere troppo tempo», come una mondana appiccicosa. 

Lo sguardo di Sorrentino è freddo e preciso come un bisturi; non c'è compassione per le umane debolezze, non c'è il calore di Fellini, che amava i suoi personaggi, anche i più meschini.
Il regista ci dà in pasto la sua visione senza veli e senza alibi.
I numerosi frammenti di cui il film si compone, volutamente affastellati, lasciano lo spettatore con un senso di sgomento, di claustrofobia emotiva.
L'arrivo di suor Maria, che in mano ad un altro cineasta avrebbe potuto simboleggiare la salvezza, qui è confinato nell'inutilità di una penitenza dolorosa e senza eco, di cui nessuno si cura.
I cardinali sono diversi dagli altri invitati solo perché indossano la porpora anziché il lamé.

L'autore abbandona il suo distacco solo nelle inquadrature che rivelano per l'Urbe una passione senza rimedio. Sorrentino-Bigazzi (il direttore della fotografia) è una premiata ditta ormai da molti anni e questo, con Roma, è un vero ménage a trois. 

La recente visione de Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann mi ha spinta a confrontare i due mondi e i due momenti storici. Là un'America assetata di divertimento dopo gli orrori della guerra ma già avviata al baratro della Grande Depressione, qui una società che si rifiuta di comprendere che gli anni delle feste sono finiti da tempo. 

Il film regala un solo momento romantico, un piccolissimo frammento lirico: l'incontro notturno e casuale tra Jep e madame Fanny Ardant, la musa meravigliosa che gli anni non possono toccare. Ardant sorride appena e poi continua per la propria strada, lei sì Grande Bellezza Indiscutibile.

martedì 4 giugno 2013

Barack Obama, il Nobel e la Convenzione di Ginevra

Henry Dunant


Il Presidente americano Barack Obama ha stabilito, nel 2009, un singolare primato.
Nell'arco di pochi mesi si è insediato alla Casa Bianca ed è stato insignito del Premio Nobel per la Pace.
Prima di lui, altri tre presidenti avevano ricevuto lo stesso riconoscimento da Oslo: Thomas Woodrow Wilson e Jimmy Carter -democratici come Obama- e Theodore Roosevelt, che invece era un rappresentante del partito repubblicano.
A parte Carter, tutti sono stati premiati durante i rispettivi mandati e, a guardar bene nella recente storia americana, c'è da chiedersi a quale titolo. 

Nell'ultimo numero del magazine The New Yorker si legge che nei prossimi mesi Obama dovrà esprimersi in merito alla costruzione dell'oleodotto Keystone, opera faraonica che dovrebbe trasportare il greggio dai giacimenti dell'Alberta, in Canada, giù fino alle raffinerie del Golfo del Messico. 
Nelle scorse settimane il presidente ha cominciato una campagna a favore del progetto, adducendo sostanzialmente due motivi: migliaia di posti di lavoro in un momento in cui l'economia è in difficoltà e un partner commerciale, il Canada, di sicuro meno problematico dell'Iraq.
Purtroppo la realizzazione dell'impresa non è esente da grossi rischi. 
Il greggio canadese giace nelle sabbie bituminose e, per estrarlo, occorre utilizzare energia proveniente dai combustibili fossili, in quantità tale da rendere le emissioni di anidride carbonica molto superiori a quelle necessarie per l'estrazione di un barile in condizioni normali. 
La scelta è tra la soluzione ai consumi interni e l'attenzione al clima globale.

Sfortunatamente per il pianeta terra, ad Obama gli interessi economici degli Stati Uniti stanno molto a cuore e vengono prima delle problematiche legate all'ambiente. 
Vengono prima anche del destino di un popolo e sue scelte di politica estera in America Latina lo dimostrano ampiamente.

Nel 2009 in Honduras un golpe depose il presidente democraticamente eletto Manuel Zelaya e provocò una rivolta popolare, poi soffocata nel sangue. Il colpo di stato fu liquidato dagli Stati Uniti come un incidente di percorso e il nuovo governo gestito dai militari venne prontamente riconosciuto. Gli Usa revocarono l'embargo e si garantirono la permanenza nelle basi aeree presenti sul suolo hondureño. I quotidiani americani riportarono l'accaduto come «una conquista della democrazia».

Il repubblicano Theodore Roosevelt, considerato uno dei padri fondatori della nazione, scolpito nel monte Rushmore mentre osserva l'orizzonte con fiero cipiglio, è passato alla storia per la «politica del grande randello». Fu un convinto sostenitore della supremazia della razza bianca e nei suoi discorsi affermò a più riprese che i bianchi, o meglio gli europei, avevano portato progresso e civiltà in quei paesi nei quali si erano insediati. Il fatto di avere estromesso con la guerra i messicani e aggiunto il Texas all'Unione rientrava in questa ferrea convinzione, insieme al cannoneggiamento della Colombia per aggiudicarsi Panama e la relativa costruzione del canale.
Tra le sue frasi pacifiste possiamo citare: «Parla a bassa voce, ma porta con te un grosso randello: andrai lontano» e «Nessun trionfo di pace è più esaltante di un trionfo di guerra»

Woodrow Wilson, che fu presidente dal 1913 al 1921, fu il responsabile dell'invasione di Haiti e della sua conseguente rovina politica. In omaggio ai principi di democrazia e amore per la pacifica convivenza dei popoli, Wilson ordinò ai marines di sciogliere il parlamento dell'isola, perché si era opposto all'approvazione di una legge che avrebbe consentito alle industrie americane di colonizzarla; poi la consegnò nelle mani di una spietata dittatura che andò avanti per decenni. 
Incoraggiato dal successo, invase anche la Repubblica Dominicana, responsabile di essere un debitore insolvente nei confronti degli Stati Uniti. In realtà l'intento era difendere gli interessi degli americani nella lucrosa coltivazione della canna da zucchero. Quando i militari lasciarono l'isola vi insediarono Trujillo, un fantoccio feroce, che difese gli interessi dei suoi padroni con la forza fino al 1961, anno del suo assassinio frutto di una congiura. 

Infine Jimmy Carter, in carica dal 1977 al 1981, appoggiò la cruenta dittatura di Somoza in Nicaragua, che provocò decine di migliaia di morti.
Gli Usa finanziarono illegalmente la guardia nazionale del dittatore e quando l'operazione venne allo scoperto, passò alla storia come scandalo Iran-Contras.

Salvaguardare l'economia e gli investimenti dell'America è sempre stato il primo pensiero di qualunque amministrazione, democratica o repubblicana che fosse.  
La questione dei diritti umani, se contrapposta a ingenti interessi economici, non ha mai prevalso.

Neppure Barack Obama, che pure porta su di sé l'eredità storica di un popolo oppresso, ha saputo opporsi alle lobbies e alla logica del profitto.

Questo non gli ha impedito, ancor prima di avere la possibilità di dimostrarsene degno, di ricevere lo stesso premio che nel 1901 fu consegnato a Jean Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa Internazionale e ideatore della Convenzione di Ginevra per i diritti umani.