martedì 10 dicembre 2013

Blue Jasmine

Cate Blanchette


Una donna in fuga da se stessa e da una vita finita in pezzi.
Il disperato tentativo di ricominciare senza reti di protezione.
Una sorellastra che più diversa di così non potrebbe essere.
Un guardaroba tra Hermès e Chanel, unico possibile salvacondotto per il futuro.

Woody Allen ci accompagna tra nevrosi e depressioni da decenni, ma il suo viaggio è sempre stato lieve, come se lo spleen fosse un sofisticato modo di sentire, molto adatto ai newyorchesi e agli intellettuali della sinistra chic.
Nelle sue pellicole, che lui vi apparisse o no, il personaggio border line aveva sempre qualcosa di fatuo.
Ma Jasmine French è tutto fuorché una donna fatua; in lei la tragedia si respira fin dal primo fotogramma, in quella cabina di prima classe che la porterà da New York a San Francisco, in un viaggio di sola andata. Come con Caronte, verrebbe da dire. 

Spogliata della corazza che il denaro le ha sempre garantito, vittima dell'alcol e degli psicofarmaci, in balìa di ricordi troppo dolorosi per essere condivisi, Jasmine è completamente sola e altro non può fare se non cercare rifugio dalla sorellastra.

Qui, catapultata in una vita mediocre, avvicinata da personaggi che mai avrebbe pensato di trovarsi a frequentare, costretta a guadagnarsi da vivere, Jasmine ha lo sguardo dell'animale braccato.
Come in un flusso di coscienza la donna ci informa del suo passato, degli errori commessi, della vita scintillante e fasulla condotta per anni e anni. Sarebbe un personaggio antipatico se dietro non si percepissero un vuoto incolmabile e un terrore senza rimedio.
Perfino Blue Moon, la canzone che le aveva fatto incontrare il marito, suona qui come un'orazione funebre.

Cate Blanchett ci regala una interpretazione colossale e mette una seria ipoteca a un Oscar come attrice protagonista (e sarebbe anche ora che lo portasse a casa).
Il viaggio senza ritorno nella follia e nell'espiazione è reso con una forza d'urto impressionante.
Bellissima e algida come certe muse di Hitchcock a New York, isterica e fuori controllo come certi personaggi di Lars von Trier a San Francisco: le due anime della stessa donna destinate alla perdizione.

Tutto il cast è di ottimo livello ma Blanchett cattura intera l'attenzione dello spettatore. 

Allen ha creato il suo personaggio femminile più complesso e sfaccettato, facendo di Jasmine la metafora della società contemporanea, fondata sull'apparenza e sullo strapotere del denaro e ormai avviata verso la distruzione.
La splendida colonna sonora, il jazz così amato dal regista, è quasi irridente.
La riflessione sulla colpa e sul castigo, un tema caro al cineasta da molti anni, è qui indagato senza un sorriso, quasi senza l'ironia che sempre serpeggia, anche nei momenti più bui, nelle sue pellicole.
L'età che avanza sta scavando pensieri più cupi? O New York gli appare più crudele di quanto non facesse prima? 

Scopriremo che è la stessa Jasmine l'artefice della propria caduta, preda di una furia distruttrice che tutto arde e consuma.

Una tragedia greca, appunto.
C'è un particolare che dice tutto di questa donna: nelle sequenze girate a San Francisco non si separa mai dalla propria Kelly, uno status symbol imbracciato come un patetico scudo contro la crudeltà del suo presente.
Solo nell'ultima scena se ne dimenticherà, quando ormai perduta nelle nebbie di un futuro inaffrontabile, ci offrirà un primo piano difficile da dimenticare. 






lunedì 2 dicembre 2013

Venere in Pelliccia


Roman Polanski, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric



«E l'Onnipotente lo colpì
E lo consegnò nelle mani di una donna»


Un uomo, una donna, un teatro vuoto, un libro dentro un testo teatrale dentro un film.
Sono questi gli scarni elementi sui quali Roman Polanski costruisce la sua storia.
E il risultato è straordinario.

Mathieu Amalric è Thomas, un regista in cerca di un'attrice alla quale affidare un ruolo difficile.
Emmanuelle Seigner è Vanda, una dea sotto mentite spoglie.

Chiusi per 89 minuti in un teatro polveroso, tra scenografie dismesse e il rumore di un temporale, i due personaggi giocano una partita a scacchi nella quale non può essere richiesta la patta.

Thomas e Vanda: la creazione artistica, il complesso rapporto tra chi dirige un lavoro teatrale e chi deve dare corpo e voce a un personaggio si intrecciano alle figure di Severin e Wanda, i protagonisti del romanzo di Leopold Von Sacher-Masoch da cui il film, passando per una pièce teatrale di David Ives, proviene.

Come in un gioco di specchi nel quale continuamente la verità diviene finzione, Thomas e Vanda si muovono su un terreno prima ingannevolmente semplice e poi via via più cedevole, più ambiguo, più pericoloso.
Sono l'oscura palude del desiderio e delle sue implicazioni, la tentazione di annullamento nell'altro, la pulsione alla morte e al suo contrario; molti i livelli di lettura e alcuni disagevoli per lo spettatore.
La metamorfosi di Vanda, sboccata figlia delle periferie parigine è travolgente non solo per il regista che le sta davanti ma anche e soprattutto per il pubblico in sala.
La Dea che si svela come Salome e a poco a poco sorge in tutto il suo splendore è la catartica punizione della mascolinità esibita e per questo periclitante.
Ma chi è padrone di chi? Siamo davvero in grado di dominare i nostri impulsi, o ne veniamo soggiogati, trascinando con noi le nostre vittime in una caduta senza riparo?
Cosa succede all'Eros se per un momento sciogliamo i lacci della rispettabilità?
Dove conduce la brama di conoscenza?


La Seigner offre la prova migliore della sua carriera, quasi oscurando il pur bravissimo partner (un perfetto doppio di Polanski).
Matura e bella di una bellezza senza filtri, la sensuale protagonista di Frantic è qui una donna dallo sguardo spesso e fumoso, dalle forme generose, dall'appeal irresistibile.
Per 89 minuti tiene la scena senza un cedimento, in precario equilibrio tra lussuria e ironia.

Mathieu Amalric si conferma uno dei grandi attori del cinema francese.
Privo di enfasi, attento al gesto, eppure intenso e perfettamente calato nel ruolo dell'uomo denudato nel profondo.
Antipatico all'aprirsi del sipario, quando giudica Vanda basandosi sull'involucro e poi via via più sincero, più arreso alla scoperta e come ansioso di saperne di più su se stesso e la sua anima.

La regia è così perfetta che non si vede. Era dai tempi de «Il Pianista» che Polanski non realizzava qualcosa di altrettanto riuscito.
Con un budget risicato e una location fissa Polanski emoziona e fa pensare.
È chiaramente un atto d'amore verso la moglie, un regalo all'attrice, un omaggio al femminile.
Farebbe incetta di premi se non lo avesse diretto lui, se non fosse un personaggio discutibile e a molti inviso.
Ma dopo l'Oscar a Tarantino, forse non tutto è perduto.

«Venere in pelliccia» il testo originario, scandaloso romanzo che rimanda alla verità, è un viaggio nell'inconscio collettivo.
Sacher-Masoch, in forme disparate e in dosi difformi è dentro ognuno di noi.
Spesso è irriconoscibile, paludato dalla nostra coscienza castrante, zittito dal pensiero razionale, mortificato (sic!) dal quotidiano.

Ma c'è, respira, e appena può, ci parla.