sabato 23 febbraio 2013

Anna Karenina





Dal 1911 ad oggi le riduzioni cinematografiche e televisive del romanzo di Lev Tolstoj, Anna Karenina, sono state una ventina.
Il personaggio della sfortunata moglie fuggitiva è stato interpretato da donne dalla fragile venustà come Greta Garbo, Vivien Leigh e Sophie Marceau. 
Difficile quindi pensare che qualcosa di nuovo potesse essere messo in scena ma Joe Wright offre un inaspettato punto di vista: la vita e il teatro sono la stessa cosa e l'una non potrebbe esistere senza l'altro.
È quindi il palcoscenico di un teatro ottocentesco con le sue quinte, i sipari, i meandri che si snodano sotto la superficie ad essere il filo conduttore della storia.
I personaggi si muovono in continue dissolvenze tra interni ed esterni, tra neve e locomotive, campi da coltivare e matrimoni da salvare.
Si ha la sensazione di assistere ad un progressivo schiudersi di matrioske che rotolano verso la tragedia, al ritmo della bellissima colonna sonora del premio Oscar Dario Marianelli. 
Anna ha la diafana bellezza di Keira Knightley, già vista nelle precedenti opere di Wright «Espiazione» e «Orgoglio e Pregiudizio»: qui si muove come trasognata nella trappola dell'amore in cui è incautamente caduta e recita con molta misura, senza indulgere in troppe crisi isteriche. Anna non si giustifica mai, non si nasconde, è consapevole di avere infranto le regole del suo ambiente e che per quel peccato non esiste perdono. In alcune inquadrature il prognatismo della mandibola è un po' troppo evidente ma il personaggio non ne soffre...
Un Jude Law invecchiato e senza fascino impersona Karenin, più che mai uomo del suo tempo, noiosamente prevedibile.
Come coppia male assortita i due funzionano benissimo; lei è bella, insofferente alle convenzioni e annoiata da un matrimonio senza passione. Lui è un burocrate concentrato sulla carriera che considera la moglie un delizioso oggetto decorativo. È fatale che il primo azzimato militare che passa di là risvegli i sensi di Anna, gettandola in un abisso di perdizione senza rimedio. 
Sulla scelta di Aaron Taylor-Johnson per il personaggio del conte Vronskij nulla da eccepire, è adeguatamente vacuo, ma  sarei stata più d'accordo se non lo avessero proposto con un'acconciatura  degna di Shirley Temple, francamente poco adatta ad un uomo dai capelli e dall'incarnato scuri come i suoi. Scegliere un attore biondo a me sembra più facile.
Per il resto, riesce a farsi odiare meno dei suoi predecessori e c'è sempre una vena di tristezza nel suo sguardo, come se foschi presagi lo attraversassero. Non si ha veramente la sensazione che sia stanco di Anna, che voglia fuggirla come un amante troppo sazio. Rispetto all'antipaticissimo Sean Bean, visto nella versione diretta da Bernard Rose del 1997, che torturava con sadico piacere una disperata Sophie Marceu, questo conte è quasi tenero. 
Domhnall Gleeson è un ottimo Kostantin Levin, innamorato perso di Kitty e così dignitoso nel suo dolore di pretendente respinto da ispirare nel pubblico femminile molta simpatia.

I costumi sono splendidi e la fotografia coglie efficacemente le atmosfere teatrali e soffocanti della storia.
Nell'ultima scena, il bellissimo volto di Anna e i suoi occhi spalancati fissano il vuoto e l'oscurità. Dalle rotaie dove ha scelto l'unico castigo possibile per espiare il suo delitto, la donna sembra guardare i due figli che, immersi nella luce estiva, giocano sotto lo sguardo vigile di Karenin. 


giovedì 21 febbraio 2013

Viale del Tramonto - Sunset Boulevard -

                                       

Il 1951 fu un anno difficile per quelli dell'Academy.

«Tra Wilder, Mankiewicz, Minnelli e Cukor chi mandiamo a casa?»
«Glielo dici tu a Anne Baxter, a Gloria Swanson, a Eleanor Parker e soprattutto a Bette Davis che dovranno far meglio la prossima volta?»
«Al prossimo party cosa raccontiamo a William Holden, James Stewart e Spencer Tracy, che non sono stati abbastanza bravi?»

Nel corso dell'anno precedente erano stati girati alcuni dei film che avrebbero fatto la storia del cinema: uno di questi era ed è ancora «Sunset Boulevard».

Da subito salutato come un'aspra critica al mondo del divismo hollywoodiano, il tema è curiosamente omologo a quello di «Eva contro Eva», veritiero ritratto del cinismo imperante a Broadway e pellicola che si aggiudicherà la statuetta come miglior film.

La gestazione di «Viale del Tramonto» (per una volta fedele traduzione dall'originale) era stata molto difficile. Numerosi attori ed attrici erano stati interpellati per i due ruoli principali e per vari motivi erano stati scartati: Greta Garbo per naturale spocchia non aveva nemmeno voluto sentir parlare della cosa, Mae West a 57 anni si reputava troppo giovane (e secondo me non intendeva recitare in un film dove un uomo la snobbava), Mary Pickford voleva riscriversi le battute e Pola Negri non aveva superato il provino perché parlava ancora con accento polacco dopo trent'anni di vita negli States. 
Con gli uomini non era andata meglio: Montgomery Clift aveva firmato e poi rotto il contratto per misteriosi motivi, Fred McMurray non voleva interpretare un gigolò, Gene Kelly aveva accettato senza interpellare la major che lo aveva in esclusiva e che gli aveva quindi negato il permesso e un certo Marlon Brando era stato snobbato perché nessuno sapeva chi fosse. 
William Holden e Gloria Swanson erano in fondo alla lista; lui osteggiato dal regista e lei a riposo da tre lustri, in fondo esattamente come la protagonista della storia...

Storia che racconta in modo mirabile la discesa agli inferi della follia di un'ex diva del muto. La divina Norma Desmond.
Norma vive sepolta in una gigantesca villa fatiscente, circondata dalle sue foto e nel culto ossessivo della se stessa di trent'anni prima.
Con lei, oltre a pochi colleghi ormai mummificati, solo il maggiordomo Max (Eric von Stroheim) suo fedelissimo servitore/adoratore che ogni giorno verga finte lettere dei fans per alimentare l'illusione di Norma.
In questo clima cimiteriale, fotografato splendidamente, irrompe il giovane Joe Gillis, scrittore piuttosto fallito di sceneggiature cinematografiche.
Joe è bello, atletico, con molti debiti e pochi scrupoli.
Norma se ne invaghisce pazzamente e lo convince a trasferirsi alla villa, con grande costernazione di Max che scopriremo in seguito essere un famoso regista nonché ex marito dell'attrice. 
Comincia così una vita di segreti e bugie da parte di Joe, smanioso di fuggire ma troppo attirato dal lusso che Norma gli offre.
La diva, convinta dai sotterfugi di Max che un ritorno sul grande schermo sia imminente, si sottopone a torture estetiche di ogni tipo per essere al meglio davanti alla cinepresa e così facendo non si accorge che Joe è molto impegnato altrove... con una donna giovane e bella.
La vicenda si avvia velocemente verso una conclusione tragica: sconvolta dalla gelosia e certa che Joe la stia per abbandonare, Norma lo uccide a colpi di pistola.
Poi, convinta di trovarsi di nuovo sul set, regala agli spettatori uno dei finali più toccanti della storia del cinema in bianco e nero. 
La visione di Norma che scende lo scalone nei panni della principessa Salome, racchiude in pochi fotogrammi tutta la crudeltà della macchina tritacarne che Hollywood è sempre stata e tutta la tragedia di chi, avvezzo ad essere considerato un semidio, viene abbandonato all'oblio del tempo che passa da chi rincorre nuovi volti più fotogenici e senza rughe...
Wilder, Holden, la Swanson e von Stroheim (tutti candidati e tutti perdenti) realizzano un film perfetto sotto ogni punto di vista.
Il triangolo malato tra Norma, Joe e Max ci restituisce tutta la meschinità di una vita in cui non c'è nulla di reale. Lei vive in un mondo di illusioni creato dal regista-marito-maggiordomo, il quale si illude che Norma un giorno potrà ricambiare la sua dedizione. Joe si racconta di non essere lo squallido gigolò di una donna anziana quanto più a lungo possibile e tutti quanti si aggirano come figure di celluloide a due dimensioni.
Billy Wilder, il geniale regista di commedie come «Sabrina», «A qualcuno piace caldo» e «Quando la moglie è in vacanza» qui sperimenta per la prima volta la tecnica narrativa della vicenda raccontata dalla voce fuori campo di un cadavere. Il film si apre infatti con l'inquadratura del corpo di Joe che galleggia a faccia in giù nella piscina della villa.
Gloria Swanson, all'epoca cinquantenne, interpreta se stessa con un'abbondante dose di autoironia. Tra le più grandi dive del muto, Gloria è decisamente sul viale del tramonto e tutta la sua impostazione del personaggio, con una recitazione enfatica ed eccessiva, tradisce un ghigno beffardo e amaro al contempo. 
William/Joe è bello e cinico, spregiudicato e calcolatore ma non senza un fondo di pietà per questa donna anacronistica ed eccessiva, perduta nelle nebbie del suo mito dimenticato.
Ma il mio preferito, in questo film di giganti, è Max: l'uomo che per metà della propria vita rimane accanto alla donna amata custodendone l'altare come il più fanatico dei sacerdoti.
Sarà lui, negli ultimi istanti, a dirigere ancora una volta Norma Desmond, nel primo piano con dissolvenza più doloroso e catartico della carriera di entrambi.




  

domenica 17 febbraio 2013

Uomini da Evitare come il Botox (Parte II)




Come promesso, ecco un'altra piccola raccolta di XY da lasciare alle proprie nemiche giurate.
Si intende che in caso di accentuato sadomasochismo declinato al femminile, la lista seguente è da attaccare al frigorifero, di fianco alla foto di Robert Downey jr.

L'Ipocondriaco
Una volta commesso il tragico errore di innamorarsi di un soggetto affetto da ipocondria, si è condannate a vivere nella perenne ansia della telefonata alle tre del mattino. No, non dal pronto soccorso, ma dal vostro partner che con il tono accorato di un condannato alla morte per impiccagione vi dirà: «Mi sono appena svegliato da un sogno orribile e ho una spaventosa tachicardia, secondo te sto per avere un infarto?» 
Alla quarta volta una donna sana di mente dovrebbe rispondere qualcosa tipo: «No, non stai per avere un infarto, ma se fra cinque minuti suonerà il campanello vai ad aprire senza paura tesoro.» Poi, la donna che tiene al proprio equilibrio psichico, prende l'agenda, chiama quel giocatore di rugby di centotrenta chili che brama solo di compiacerla e gli ordina di andare a dare una bella ripassata allo pseudo infartuato. Quattro mesi di gesso durante i quali la lei se ne starà a crogiolarsi al sole dei tropici dovrebbero bastargli per un po'.
«Ho un neo sul ginocchio, sarà senz'altro un melanoma». «Da tre giorni ho un mal di testa incoercibile, devo avere un tumore al cervello». «No, non andremo in vacanza alle cascate Vittoria, non ci sono ospedali occidentali nel raggio di 500 km». «Mi dispiace molto ma la settimana bianca per il tuo compleanno non si può fare, ho il check-up».
Normalmente la Natura si vendica di tali soggetti e li fa morire per un'intolleranza al nuovo farmaco contro la gotta, mandandoli in shock anafilattico mentre guidano l'auto sulla Napoli -Salerno.

L'Internet dipendente
Il suo primo gesto la mattina è afferrare lo smartphone per controllare lo stato di Facebook, What'sApp, Twitter, Ruzzle e le chat nei preferiti.
Poi passa alle mail, agli sms, alle notifiche provenienti da Alpha Centauri.
Poco importa se nel letto sta dormendo Bianca Balti nuda: dopo tre settimane al massimo lo schiavo di internet concluderà che Bianca può anche aspettare dieci minuti che non crolla mica il mondo...
L'internet maniaco ha cicalini che bippano in continuazione e ai quali continuamente lui dà retta. A tavola, al cinema, a teatro, ai concerti, in ufficio, ai funerali, alle esecuzioni in piazza, durante una lite con la moglie, ovunque un BZZZZZZZ e una vibrazione scuotono il soggetto da qualunque attività, non importa quanto piacevole.
Se ha finito di fare sesso da tre minuti e un dlin dlon risuona nella stanza, lui non sarà capace di resistere alla tentazione di sbirciare; se vi assentate due minuti per una pipì irrimandabile ne approfitterà per balzare sul cellulare e sincerarsi che non sia successo qualcosa di interessantissimo mentre lui era occupato altrimenti. 
Il malato della Rete non vive la sua vita; la fotografa, la commenta e poi la posta. Ovunque sia possibile. 
Inutile dire che iniziare una competizione con facebook è arduo e anche un po' umiliante.
L'unica soluzione resta sempre quella di ricambiare "tradimenti" virtuali con divertimenti reali. 
Decidete da sole le modalità, io non ho detto nulla...

Della Gelosia
Partiamo da un presupposto: tutti gli uomini fino a cinque minuti prima del loro funerale sono gelosi.
Assodato questo, ci sono delle distinzioni da fare sul livello di sopportabilità della gelosia stessa.

Il Geloso Soffocante
È troppo di tutto. Troppo appiccicoso, troppo coccolone, troppo presente.
Crede che per assicurarsi la fedeltà di una donna sia sufficiente non lasciare vuoti da riempire (astenersi dalle battute da marmittone).
Lui c'è. Sempre. 
Alle feste, per lo shopping, per accompagnarvi dal dentista e aspettare fuori, per scortarvi alle cene, al cinema, DOVUNQUE! 
Senza parere, stringe intorno al collo della sua lei una pashmina fatta di certezze (per lui) sul dove-sei cosa-fai con-chi quando-torni-a-casa.
La tentazione di tradirlo mentre è sotto la doccia è ovviamente irresistibile... perché disgraziatamente di rado questo tipo di uomo è interessante di suo; semplicemente marca il territorio in continuazione e crede che non contraddire una donna basti a renderla felice.
Le amiche di lei lo odiano perché all'improvviso le serate XY free diventano impossibili e per vedersi tra ragazze bisogna aspettare che lui sia in camera di rianimazione per i postumi di un incidente: incidente? Chi ha detto "incidente"?

Il Geloso Inquisitore
La vita con questo tipo di uomo può facilmente trasformarsi in un inferno sulla Terra, su cui c'è poco da ridere.
Per lui nessuna donna è innocente, per lui nessun comportamento è abbastanza innocuo e senza cattive intenzioni. 
L'inquisitore è qualcuno che ti fa una scenata se non rispondi prima del secondo squillo, uno che passa sotto casa tua per controllare se la tua auto è lì e se le luci nelle stanze sono accese o meno.
Lui pensa che tutti i tuoi colleghi vogliano scoparti e che tu abbia fatto carriera solo perché l'hai data via come la poltiglia bordolese.
Lui cerca di farti intorno terra bruciata e di allontanare qualunque amicizia, maschile e femminile, perché non vuole correre il rischio che qualcuna possa aprirti gli occhi.
Quando si accorge di aver passato il segno con la sua paranoia e che la vittima potrebbe sfuggirgli, di solito piange a dirotto e si dispera protestando il suo amore folle e senza limiti.
L'inquisitore è un uomo molto malato, che bisogna imparare a riconoscere in fretta, prima di cadere nella ragnatela che spesso è apparentemente molto desiderabile.
Non c'è una vendetta, occorre fuggire. Subito.

Il Geloso Negazionista
È l'unico tollerabile perché non rompe le scatole, anzi, è fonte di continuo divertimento.
Il geloso che nega al mondo intero di essere geloso soffre in realtà le pene dell'inferno (e se le merita) ma si ostina a simulare indifferenza e se interrogato nega con sdegno l'evidenza più marchiana. Lui non chiede, non controlla, non spia ma in compenso costruisce teoremi basati sul nulla che lascerebbero di stucco anche Sherlock Holmes, per quanto sono immaginifici. Gli altri uomini ovviamente lo riconoscono lontano un miglio e se sono un po' perfidi, amano vederlo mentre si contorce e diventa paonazzo nello sforzo di controllarsi, mentre la sua donna chiacchiera e ridacchia con uno fico che più fico non si può. 
Il non-sono-affatto-geloso è capace di tacere per giorni dopo quello che lui considera un affronto e poi di venirsene fuori con una cattiveria trasversale apparentemente slegata dal contesto.
Per contro, è uno che spesso fa il cascamorto con le altre, per rassicurare se stesso sulla propria capacità seduttiva più che per tradire, ma naturalmente non è disposto a subire lo stesso trattamento dalla sua compagna. Ci mancherebbe!!  
Se non presenta altri difetti inemendabili è l'unico soggetto da tenere da conto. Gli altri sono infinitamente peggio...
(continua)

mercoledì 13 febbraio 2013

Eva contro Eva - All about Eve -





Nel 1950 il regista Joseph L. Mankiewicz scrisse e diresse un film destinato a entrare nella storia del cinema per molti motivi.
Il racconto The Wisdom of Eve scritto nel 1946 da Mary Orr parla di donne. Anzi, no. Parla di attrici, che è cosa differente.
Ambientato nel cinico e scintillante ambiente di Broadway All about Eve è un gioiello del cinema in bianco e nero, diretto e fotografato con perfetta maestria.

Bette Davis, Anne Baxter, Celeste Holm, Thelma Ritter e George Sanders furono tutti candidati all'Oscar per i rispettivi ruoli. Il film collezionò ben 14 nomination (record imbattuto fino all'avvento di Titanic ben quarantasette anni dopo) e si aggiudicò 6 statuette, tra cui quella per il miglior film. Dei cinque attori Sanders fu l'unico a portarsi a casa il premio e pare che all'epoca la Davis non l'avesse presa bene.

La vicenda è semplice e potremmo dire circolare: io faccio le scarpe a te e poi arriva qualcuna che le fa a me, fino alla fine dei tempi...

Margo Channing (Bette Davis) è l'indiscussa regina delle commedie di Broadway e ha un fidanzato molto innamorato di lei, nonostante la signora sia un articolo di difficile (di)gestione.
Affascinante, acclamata, viziata e abituata a comandare, Margo ha però la debolezza comune a tutti gli artisti: davanti all'adulazione ben dissimulata, soccombe.
È facendo leva su questo che Eva Harrington (una odiosa Anne Baxter) riesce a insinuarsi nella vita di Margo. Assunta come segretaria grazie al carattere apparentemente mite e fragile, Eva nasconde la sua sfrenata ambizione di attrice fino a quando non le si presenta l'occasione per soffiare un ruolo alla Channing. A quel punto mira a prendersi anche Bill Sampson (Gary Merrill) il fidanzato di Margo, il quale fortunatamente non si lascia incantare e anzi la respinge con durezza.
Dietro a tutti questi personaggi siede Addison DeWitt, (un sulfureo George Sanders) critico teatrale con potere di vita o di morte su chiunque calchi un palcoscenico a New York. Cinico e calcolatore proprio come Eva, DeWitt osserva con occhio divertito le contorsioni del quartetto e, come un moderno deus ex machina, muove con discrezione le pedine sulla scacchiera in bianco e nero del racconto.

In una famosa sequenza, dai dialoghi taglienti come rasoi, giunge inaspettata una giovane attrice quasi sconosciuta, certa Marilyn Monroe, luminosa e svampita come solo lei sapeva essere. Sta in scena due minuti scarsi, ma non puoi più dimenticarla.

Celeste Holm e Thelma Ritter, nei ruoli rispettivamente di amica e assistente di Margo, sono perfette, con tempi teatrali da vecchia scuola.

Di Bette Davis che dire? Nella parte più o meno di se stessa offre un'interpretazione gigantesca. Gli sguardi che indirizza al resto del cast potrebbero bastare per un film senza sonoro, l'intonazione della sua prosa è priva di enfasi e molto moderna (nel doppiaggio italiano invece il birignao si fa sentire), il suo incedere a scatti, come preda di una tensione perenne, ce la rende umana e simpatica nonostante le asprezze del carattere e se proprio avessi dovuto rapinarle l'Oscar lo avrei dato a Gloria Swanson per Sunset Boulevard, non certo a Judy Holliday per Born Yesterday.
Ben diverso è il sentimento che si prova nei confronti della melliflua Eva e del suo strisciare intorno a Margo. La Baxter è bravissima a farsi odiare e ogni volta che rivedo il film provo lo stesso desiderio di strozzarla.
Ma ci penserà il tempo a vendicare Margo; per Eva, ora preda delle debolezze di una diva, la serpe infreddolita è proprio dietro l'angolo.

  

martedì 12 febbraio 2013

Quartet

Maggie Smith e Dustin Hoffman



Dustin Hoffman esordisce dietro la macchina da presa alla tenera età di 76 anni e poiché ha lavorato con alcuni dei più grandi registi di sempre ed è un ragazzo sveglio, il risultato della sua opera prima è lodevole.
In genere i film sulla decrepitezza o sono malinconici o sfociano nella comicità di grana grossa.
Questo piccolo film invece, grazie alla massiccia presenza di attori inglesi, è elegantissimo.
Basta a dimostrarlo la battuta di una magnifica Maggie Smith: «Sto per dirti qualcosa di molto sgarbato. Vaffanculo» che non riesce assolutamente ad essere volgare ma solo esilarante.
La storia è ambientata in una casa di riposo per musicisti, in realtà una meravigliosa villa immersa nella campagna inglese, nella quale mi trasferirei volentieri anch'io al massimo fra dieci anni...
Nel buen retiro fatto di saloni e boiserie si sta preparando l'annuale concerto per commemorare il compleanno di Giuseppe Verdi, quando l'arrivo di una diva della lirica, Maggie Smith per l'appunto, porta fermento e scompiglio tra gli ospiti...

Hoffman ha riunito autentici musicisti (con tutti i loro tic e le loro piccole manie) e li ha lasciati lavorare.
Il risultato è uno squarcio pieno di autenticità su un mondo poco indagato e molto divertente quale il teatro in effetti è. 
La presenza di una vera signora del palcoscenico come Dame Gwyneth Jones, acidissima con tutte le colleghe vive o defunte, è un colpo di genio. Giurerei che non le abbiano neppure dato un copione e le abbiano detto di esprimersi liberamente... 
Tom Courtenay, Pauline Collins, Michael Gambon e Maggie Smith sono un quartetto formidabile, attorniati da coprotagonisti brillanti.
I dialoghi sono made in England, sempre venati di ironia e leggerezza, anche quando trattano di Alzheimer e prostatite.
Le sequenze delle prove per il concerto sono bellissime e chiunque abbia calcato le scene riconoscerà le dinamiche proprie di questo lavoro.
La colonna sonora è tutta giocata su famose arie verdiane e su standard jazz, suonati e cantati dagli stessi attori.

Dustin Hoffman dimostra di avere l'intelligenza propria dei registi di una volta alle prese con i grandi attori: si sedevano sulla loro sedia e dicevano «Ciak! Motore! Azione!» e poi stavano zitti fino alla conferenza stampa. 

Le Roi n'est Pas Mort. Vive le Roi?





Da circa duemila anni qualcuno si arroga il diritto di dirci come vivere la nostra vita da prima della nascita a dopo la morte.
In questo lasso di tempo, spesso non breve, la Chiesa di Roma pretende di regolamentare e giudicare pensieri, opere, azioni e omissioni di tutti gli individui che hanno la sventura di nascere in un Paese a maggioranza cattolica.
Come donna e come cittadina non sono libera di decidere della mia sessualità in termini di contraccezione, aborto, orientamento sessuale. Al di fuori del matrimonio qualunque rapporto d'amore è bollato come peccaminoso e fonte di perdizione per la mia anima.
Se giunta al termine della mia vita la malattia mi rendesse invalida, preda di atroci dolori, vittima di una dipendenza assoluta dalle cure dei sanitari, perfino se incosciente e in coma irreversibile, l'inflessibile padre nostro mi proibirebbe una fine dignitosa, perché la mia vita non è mia, bensì sua e quindi può disporne a suo piacimento. 
Nascita, sessualità, morte: questi i temi fondamentali sui quali la chiesa ha impostato il suo dominio. Da qui la creazione del senso di colpa, l'ammorbante strumento di coercizione che per secoli ha piegato la volontà dei singoli con la visione della dannazione eterna.
Re e Imperatori hanno tremato davanti alla minaccia delle fiamme infernali, generazioni di donne le hanno assaggiate sulla propria carne, nei roghi dell'Inquisizione. 
L'energia vitale più potente e creatrice, la più difficile da dominare perché primigenia e universale, quella sessuale, è stata mortificata e resa abietta, costretta negli angusti spazi della procreazione a tutti i costi. 
L'antico sapere arso nelle biblioteche dei saggi, le voci degli scienziati soffocate nel sangue e nell'abiura, i riti degli antichi depredati e snaturati, le coscienze obnubilate dal terrore dei castighi divini, distruzione e morte dispensate senza riserve e in cambio di che cosa? 
Le feste del raccolto, gioiosi baccanali in comunione con il risveglio della primavera, sostituite dalle sinistre prediche piene di zolfo e dalle tetre funzioni nelle buie cattedrali, in cui la comunione consiste nel cannibalico rito di mangiare il sangue e il corpo di un tizio morto da millenni.
Digiuni, veglie, penitenze, confessioni, rinunce, astinenze, preghiere, sottomissione, obbedienza, mortificazione: questa è la volontà di un dio sanguinario e feroce, altro che amoroso e padre. Quale padre penserebbe di farsi amare in cotal guisa?

In tempi più recenti il distacco di milioni di persone dalla fede cattolica ha mostrato con maggiore evidenza l'ingerenza pesantissima del Vaticano nell'attività dei governi di intere nazioni.
La Chiesa, corrotta e peccatrice, si arroga ancora il diritto di ostacolare leggi a salvaguardia della libertà personale in ogni parte del mondo. Gli Stati, in diversa misura, ancora soggiacciono ai diktat papalini per quanto concerne nascita, sessualità e morte.
È di pochi mesi fa la tragica fine, in un ospedale irlandese, di una donna di origini indiane a cui è stato negato l'aborto di un feto che le ha indotto una setticemia fatale. I medici che l'avevano in cura si sono giustificati dicendo che l'Irlanda è un paese cattolico, in cui non si abortisce. Non si abortisce un feto di diciotto settimane, ma si uccide una persona sana di ventotto anni.

Un cittadino, magari neppure battezzato, non può decidere della propria vita secondo le proprie convinzioni ma un Papa, scelto dallo Spirito Santo, investito di un Ministero Sacro può decidere, da ieri mattina, che fare il Papa è troppo gravoso e quindi, tanti saluti e ringraziamenti allo Spirito Santo, ma queste sono le mie dimissioni. 

«Non si scende dalla croce» è stato l'unico commento esente da piaggeria che ho sentito nelle ultime ventiquattro ore giungere dalle personalità interpellate in merito a questa decisione. Viene dal cardinale polacco Stanislaw Dziwisz, che fu segretario di papa Wojtyla, uno che se non altro è rimasto al suo posto fino alla morte senza lagnarsi.
Il vicario di Cristo ha deciso, per il bene della Chiesa s'intende, di non essere più in grado di dare ragione allo Spirito Santo, il quale dovrà rendersi conto di aver mal giudicato il suo cane da guardia. 
L'abdicazione di Herr Ratzinger precipita la chiesa nel relativismo contro il quale si è strenuamente battuta per secoli, visto che questa è la decisione dell'amministratore di un potere puramente temporale, non certo quella di un capo spirituale.
Un papa emerito distrugge per sempre la sacralità di un ruolo che finora poteva essere spacciato per divino e mistico. In un discorso di dimissioni, seppure scritto in latino, non vi è nulla di trascendente. Non mi importa quanto tu possa essere vecchio, stanco, inadeguato, non degno, provato o malato: la tua coetanea Elisabetta II d'Inghilterra, capo della chiesa anglicana, rimane al suo posto, dopo 60 anni di regno che non pretende le sia stato concesso dal disegno di un Dio onnipotente.
Questa decisione è il sospirato inizio della fine di una istituzione barbara, contraria all'Umanesimo e all'umano, lontana anni luce dalla ricerca della felicità che dovrebbe essere lo scopo di ognuno di noi.
Personalmente auspico che le lotte intestine, gli intrighi, le battaglie cruente per il potere dentro i palazzi vaticani, distruggano finalmente dall'interno un sistema marcio fino al midollo e restituiscano alle nuove generazioni la leggerezza di una coscienza che possa svilupparsi secondo principi davvero etici. Principi che non mortifichino l'essere umano nella sua complessità e bellezza con la ridicola minaccia dell'inferno. 

giovedì 7 febbraio 2013

Scandalo a Filadelfia

La grande Katharine Hepburn aveva i capelli rossi. 
Questo significa che era una donna dolcissima che semplicemente non veniva presa per il verso giusto...

The Philadelphia Story è una geniale sophisticated comedy di George Cukor del 1940.
Candidato a ben sei premi Oscar, (miglior film, migliore regia, migliore attice protagonista, migliore attore protagonista, migliore sceneggiatura non originale e migliore attrice non protagonista) il film ne vinse solo due, meritatissimi, per la sceneggiatura di Donald Odgen Stewart e per il migliore attore protagonista, uno spassoso James Stewart.
In lizza insieme a lui quell'anno c'erano Laurence Olivier, Henry Fonda e Charlie Chaplin, rispettivamente per Rebecca; Furore; Il grande dittatore. 

La Hepburn interpreta il ruolo di una ragazza dell'alta società wasp alle prese con un ex marito (uno strepitoso Cary Grant) e un nuovo matrimonio da mandare a monte.
I dialoghi sono un capolavoro di ironia, leggerezza, gentile perfidia e romanticismo stemperato dallo champagne e dal whiskey.
È degli anni '50 un remake quasi altrettanto famoso e quasi all'altezza dell'originale: Alta società con una splendente Grace Kelly, forse più bella ma non altrettanto caustica e un cast che comprendeva Frank Sinatra, Bing Crosby, Louis Armstrong e Celeste Holm.

Scandalo a Filadelfia, bacchettona traduzione italiana dall'originale, è nella mia personale classifica delle migliori commedie di tutti i tempi.
E credo fermamente che qualunque uomo sposato, fidanzato, innamorato di una fanciulla dalle roventi chiome dovrebbe vederlo: armato di carta e penna per prendere appunti. 

martedì 5 febbraio 2013

Lincoln

Daniel Day-Lewis


Steven Spielberg questa volta non ha centrato il bersaglio.
In un'annata di film da 150 minuti, il suo non è in grado di tenere desto l'interesse dello spettatore, malgrado l'argomento epico.
Sorvoliamo sulla parziale distorsione della Storia, un film è un'opera di fantasia e non uno strumento didattico, se ben realizzato può farsi perdonare molte bugie. 
Questo film è bugiardo e in più è ingessato e non decolla mai.
Daniel Day-Lewis è ottimamente truccato e calato nella fisicità del personaggio ma questo non basta a farne un ritratto memorabile e ho avuto l'impressione di una recitazione molto costruita e poco interiorizzata. In una parola, carente di verità. Forse la coperta di lana di nonna Abelarda drappeggiata sulle spalle anche nella situation room lo ha un po' imbarazzato...
Dell'atroce doppiaggio del protagonista ad opera di Pierfrancesco Favino preferisco non parlare, visto che sono contraria alla pena di morte: i primi cinque minuti del film sono da esecuzione sommaria.
La figura della signora Lincoln, un ruolo molto piccolo a dire il vero, è un susseguirsi di isteria e lacrime e non basta la bravura di Sally Field a riscattarla. Non parliamo di Oscar, per favore.
Gli altri personaggi non spiccano, ad eccezione di uno: Tommy Lee Jones ci regala una grande interpretazione.
Con una faccia quasi immobile e le movenze goffe di un anziano claudicante, Lee Jones è magistrale. Lui sì con un degno doppiatore. Guardatelo quando torna a casa con il documento per la sua compagna perché è il solo momento di autentica commozione di tutto il film.
La colonna sonora è bella ma John Williams ormai cita se stesso più di Gioacchino Rossini.
La luce è uniformemente plumbea e mi verrebbe da dire retorica, come la fotografia.
Ho pazientemente atteso la zampata del leone. Inutilmente.
La lunga sequenza della votazione del Tredicesimo Emendamento, che avrebbe potuto riservare molto pathos, non regala nessun brivido né per la sceneggiatura in sé, né per un uso della macchina da presa particolarmente affascinante.

Steven Spielberg ha prodotto e diretto film che ho molto amato e sono certa che abbia ancora in serbo grandi cose ma questo lavoro non è tra i suoi migliori e vorrei vedere, per una volta, un guizzo di anticonformismo da parte dell'Academy che premiasse Tarantino o almeno il giovane Ben Affleck: quello che mi ricorda tanto Sidney Pollack.