martedì 10 dicembre 2013

Blue Jasmine

Cate Blanchette


Una donna in fuga da se stessa e da una vita finita in pezzi.
Il disperato tentativo di ricominciare senza reti di protezione.
Una sorellastra che più diversa di così non potrebbe essere.
Un guardaroba tra Hermès e Chanel, unico possibile salvacondotto per il futuro.

Woody Allen ci accompagna tra nevrosi e depressioni da decenni, ma il suo viaggio è sempre stato lieve, come se lo spleen fosse un sofisticato modo di sentire, molto adatto ai newyorchesi e agli intellettuali della sinistra chic.
Nelle sue pellicole, che lui vi apparisse o no, il personaggio border line aveva sempre qualcosa di fatuo.
Ma Jasmine French è tutto fuorché una donna fatua; in lei la tragedia si respira fin dal primo fotogramma, in quella cabina di prima classe che la porterà da New York a San Francisco, in un viaggio di sola andata. Come con Caronte, verrebbe da dire. 

Spogliata della corazza che il denaro le ha sempre garantito, vittima dell'alcol e degli psicofarmaci, in balìa di ricordi troppo dolorosi per essere condivisi, Jasmine è completamente sola e altro non può fare se non cercare rifugio dalla sorellastra.

Qui, catapultata in una vita mediocre, avvicinata da personaggi che mai avrebbe pensato di trovarsi a frequentare, costretta a guadagnarsi da vivere, Jasmine ha lo sguardo dell'animale braccato.
Come in un flusso di coscienza la donna ci informa del suo passato, degli errori commessi, della vita scintillante e fasulla condotta per anni e anni. Sarebbe un personaggio antipatico se dietro non si percepissero un vuoto incolmabile e un terrore senza rimedio.
Perfino Blue Moon, la canzone che le aveva fatto incontrare il marito, suona qui come un'orazione funebre.

Cate Blanchett ci regala una interpretazione colossale e mette una seria ipoteca a un Oscar come attrice protagonista (e sarebbe anche ora che lo portasse a casa).
Il viaggio senza ritorno nella follia e nell'espiazione è reso con una forza d'urto impressionante.
Bellissima e algida come certe muse di Hitchcock a New York, isterica e fuori controllo come certi personaggi di Lars von Trier a San Francisco: le due anime della stessa donna destinate alla perdizione.

Tutto il cast è di ottimo livello ma Blanchett cattura intera l'attenzione dello spettatore. 

Allen ha creato il suo personaggio femminile più complesso e sfaccettato, facendo di Jasmine la metafora della società contemporanea, fondata sull'apparenza e sullo strapotere del denaro e ormai avviata verso la distruzione.
La splendida colonna sonora, il jazz così amato dal regista, è quasi irridente.
La riflessione sulla colpa e sul castigo, un tema caro al cineasta da molti anni, è qui indagato senza un sorriso, quasi senza l'ironia che sempre serpeggia, anche nei momenti più bui, nelle sue pellicole.
L'età che avanza sta scavando pensieri più cupi? O New York gli appare più crudele di quanto non facesse prima? 

Scopriremo che è la stessa Jasmine l'artefice della propria caduta, preda di una furia distruttrice che tutto arde e consuma.

Una tragedia greca, appunto.
C'è un particolare che dice tutto di questa donna: nelle sequenze girate a San Francisco non si separa mai dalla propria Kelly, uno status symbol imbracciato come un patetico scudo contro la crudeltà del suo presente.
Solo nell'ultima scena se ne dimenticherà, quando ormai perduta nelle nebbie di un futuro inaffrontabile, ci offrirà un primo piano difficile da dimenticare. 






lunedì 2 dicembre 2013

Venere in Pelliccia


Roman Polanski, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric



«E l'Onnipotente lo colpì
E lo consegnò nelle mani di una donna»


Un uomo, una donna, un teatro vuoto, un libro dentro un testo teatrale dentro un film.
Sono questi gli scarni elementi sui quali Roman Polanski costruisce la sua storia.
E il risultato è straordinario.

Mathieu Amalric è Thomas, un regista in cerca di un'attrice alla quale affidare un ruolo difficile.
Emmanuelle Seigner è Vanda, una dea sotto mentite spoglie.

Chiusi per 89 minuti in un teatro polveroso, tra scenografie dismesse e il rumore di un temporale, i due personaggi giocano una partita a scacchi nella quale non può essere richiesta la patta.

Thomas e Vanda: la creazione artistica, il complesso rapporto tra chi dirige un lavoro teatrale e chi deve dare corpo e voce a un personaggio si intrecciano alle figure di Severin e Wanda, i protagonisti del romanzo di Leopold Von Sacher-Masoch da cui il film, passando per una pièce teatrale di David Ives, proviene.

Come in un gioco di specchi nel quale continuamente la verità diviene finzione, Thomas e Vanda si muovono su un terreno prima ingannevolmente semplice e poi via via più cedevole, più ambiguo, più pericoloso.
Sono l'oscura palude del desiderio e delle sue implicazioni, la tentazione di annullamento nell'altro, la pulsione alla morte e al suo contrario; molti i livelli di lettura e alcuni disagevoli per lo spettatore.
La metamorfosi di Vanda, sboccata figlia delle periferie parigine è travolgente non solo per il regista che le sta davanti ma anche e soprattutto per il pubblico in sala.
La Dea che si svela come Salome e a poco a poco sorge in tutto il suo splendore è la catartica punizione della mascolinità esibita e per questo periclitante.
Ma chi è padrone di chi? Siamo davvero in grado di dominare i nostri impulsi, o ne veniamo soggiogati, trascinando con noi le nostre vittime in una caduta senza riparo?
Cosa succede all'Eros se per un momento sciogliamo i lacci della rispettabilità?
Dove conduce la brama di conoscenza?


La Seigner offre la prova migliore della sua carriera, quasi oscurando il pur bravissimo partner (un perfetto doppio di Polanski).
Matura e bella di una bellezza senza filtri, la sensuale protagonista di Frantic è qui una donna dallo sguardo spesso e fumoso, dalle forme generose, dall'appeal irresistibile.
Per 89 minuti tiene la scena senza un cedimento, in precario equilibrio tra lussuria e ironia.

Mathieu Amalric si conferma uno dei grandi attori del cinema francese.
Privo di enfasi, attento al gesto, eppure intenso e perfettamente calato nel ruolo dell'uomo denudato nel profondo.
Antipatico all'aprirsi del sipario, quando giudica Vanda basandosi sull'involucro e poi via via più sincero, più arreso alla scoperta e come ansioso di saperne di più su se stesso e la sua anima.

La regia è così perfetta che non si vede. Era dai tempi de «Il Pianista» che Polanski non realizzava qualcosa di altrettanto riuscito.
Con un budget risicato e una location fissa Polanski emoziona e fa pensare.
È chiaramente un atto d'amore verso la moglie, un regalo all'attrice, un omaggio al femminile.
Farebbe incetta di premi se non lo avesse diretto lui, se non fosse un personaggio discutibile e a molti inviso.
Ma dopo l'Oscar a Tarantino, forse non tutto è perduto.

«Venere in pelliccia» il testo originario, scandaloso romanzo che rimanda alla verità, è un viaggio nell'inconscio collettivo.
Sacher-Masoch, in forme disparate e in dosi difformi è dentro ognuno di noi.
Spesso è irriconoscibile, paludato dalla nostra coscienza castrante, zittito dal pensiero razionale, mortificato (sic!) dal quotidiano.

Ma c'è, respira, e appena può, ci parla.




sabato 2 novembre 2013

JFK e il Sogno Infranto di Camelot



«Tu dov'eri quando hanno sparato a Kennedy?»

Dallas, venerdì 22 novembre 1963

Alle 12.30 tre colpi di arma da fuoco spezzano per sempre la visione di un condottiero e John Fitzgerald Kennedy muore assassinato, dopo appena due anni e mezzo di presidenza. 

Le immagini di Jackie che si arrampica sul cofano dell'automobile presidenziale nel tentativo di recuperare un pezzo di calotta cranica del marito, sconvolgono l'America.
La vedova del Presidente che scende dall'Air Force One indossando il tailleur macchiato di sangue che non ha voluto sostituire perché «il mondo deve vedere che cosa hanno fatto a Jack», dice tutto.
Il piccolo John jr. che, durante il funerale, lascia la mano della madre e saluta militarmente il feretro del padre, è il frame che racchiude la tragedia di una famiglia e il lutto di una Nazione. 

JFK, pur con tutte le ombre del suo operato, sembrava l'uomo capace di guidare il mondo libero verso un futuro di prosperità e di pace.

La Guerra Fredda, la minaccia di un conflitto nucleare a Cuba, il disastroso intervento in Vietnam, la crisi della Baia dei Porci, l'aperta ostilità dell'FBI nella persona di Edgar J. Hoover, Khruscev, Castro... nulla era riuscito a fermare quest'uomo giovane e instancabile. 
Kennedy e la sua Nuova Frontiera rappresentavano la pulsione al futuro, alla ricerca scientifica, alla pacifica convivenza fra i popoli: che questo dovesse necessariamente passare attraverso la supremazia degli Stati Uniti sull'Unione Sovietica e i Paesi del blocco orientale era cosa accettata e da molti ritenuta necessaria. 

Nel suo discorso di insediamento e nelle successive apparizioni, Kennedy pronunciò frasi che a distanza di cinquant'anni dalla sua morte riecheggiano ancora, attuali come non mai.
I diritti civili furono uno dei punti di forza del suo programma e l'integrazione dei neri fu un tema sul quale si scontrò duramente con l'ala conservatrice del Congresso. 
Insieme alla Gran Bretagna riuscì a impedire la proliferazione dei test nucleari e pose le basi per un parziale disarmo.
Creò quei corpi di pace che ancora operano nei Paesi in via di sviluppo (forse non proprio come lui avrebbe immaginato).

Malgrado soffrisse di atroci dolori alla schiena a causa dell'osteoporosi e delle ferite riportate durante le sue missioni nella guerra del Pacifico, Kennedy lavorò incessantemente per tutta la durata del suo breve mandato, spesso facendosi affiancare dal medico personale durante le riunioni di gabinetto e tenendo nascoste al mondo le sue vere condizioni di salute.
Insieme al fratello Robert, che nel 1968 cadrà come lui sotto i colpi di un killer mai identificato con certezza, JFK lascerà un'eredità importantissima di entusiasmo e determinazione. 

Ebbe a disposizione troppo poco tempo e non sappiamo quanto del suo programma politico avrebbe realizzato in quattro o magari otto anni di presidenza. 
Il muro di Berlino sarebbe caduto prima se lui avesse continuato ad affermare con forza «Ich bin ein Berliner»?
Il conflitto israelo-palestinese avrebbe preso un'altra piega? 
La polveriera che è diventata il Medio Oriente sarebbe stata disinnescata? 
L'America Latina avrebbe avuto maggiori chances di sviluppo?


Kennedy ha influenzato il pensiero di moltissimi uomini politici, in patria e fuori, fino ai giorni nostri.

Con il suo lavoro quest'uomo ha incoraggiato le minoranze a far sentire la loro voce; ha ispirato coloro che si battevano per un mondo più giusto e meno votato all'autodistruzione.

Aveva carisma da vendere e come molti grandi uomini aveva anche grandi debolezze... ma era un combattente nato, pluridecorato per atti di eroismo durante la Seconda Guerra Mondiale e non era tipo da mollare il prossimo al suo destino. 
In questo mondo di politici assetati di potere e disinteressati al bene comune, avremmo avuto bisogno di lui per molto più tempo...

Negli ultimi cinquant'anni, soltanto un altro avvenimento ha spinto le persone a chiedersi reciprocamente per anni: «Quel giorno, tu dov'eri?»

Quel giorno è l'11 settembre 2001.







domenica 20 ottobre 2013

Giovani Ribelli - Kill your darlings

Ben Foster, Daniel Radcliffe, Dane DeHaan


1943 - 1945. Mentre le truppe americane sono in Europa a combattere Hitler, in patria ci si prepara a conquistare il mondo con le armi della conoscenza.

Nelle aule della prestigiosa Columbia University di New York tre giovani si incontrano e si riconoscono: si chiamano Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William  Burroughs.
Insieme scriveranno un'ampia pagina della storia della letteratura americana del XXº secolo.
Raccontare un periodo così sfuggente e anarchico è impresa che richiede una certa dose di incoscienza.
E John Krokidas è un emergente un po' incosciente.
Nessun cineasta esperto avrebbe infatti scelto Daniel Radcliffe per il ruolo di Ginsberg:  capisco che il fantasma di Harry Potter sia un'entità difficile da scrollarsi di dosso ma il giovane ex mago non è pronto per dare spessore a un poeta omosessuale e tossicodipendente, padre fondatore della Beat Generation insieme ad altri due visionari un po' disadattati.
Radcliffe è goffo, timido, legnoso e nelle sequenze movimentate ci si aspetta che tiri fuori la bacchetta magica e urli «Stupeficium!»
La sua iniziazione al sesso, lungi dall'essere un'esperienza passionale o quantomeno catartica, diventa lo specchio della drammatica fine di un'altra relazione.
Inemendabile come le sue lacrime di glicerina.

Jack Huston è lo sfuggente Kerouac. L'autore di «On the road» lo avremmo voluto più bastardo, più irrequieto di quanto non appaia qui, dove si intenerisce come una pulzella quando un frustrato David Kammerer (interpretato da un lamentoso Michael C. Hall) tenta di assassinargli il gatto.
Essere il nipote di John Huston non basta per riempire lo schermo.

Burroughs ha le sembianze di Ben Foster e neppure lui trasuda anticonformismo e zolfo. Beve, fuma, si droga con qualunque cosa somigli a una droga ma manca di convinzione, non sembra avere veramente bisogno di fare quello che fa. 

Discorso diverso per l'unico non scrittore del gruppo: Lucien Carr.
Carr non è mai diventato un romanziere ma è stato colui che ha innescato la miccia.
Bello, manipolatore, fragile e crudele: l'attore Dane DeHaan ci restituisce un ragazzo perso e perdente, sofferente e ammaliatore.
Tutti i personaggi in qualche modo ne dipendono, se ne innamorano, si lasciano usare da lui.
Carr è l'amante sazio di David, che invece lo perseguita. La relazione consunta sfocerà in tragedia, trasformando il gruppo di ragazzi in adulti con l'amaro in bocca.

Krokidas perde l'occasione di fare un film duro e puro e si limita a illustrare con una fotografia perfettina e una regia banale e patinata un momento che patinato non era.
L'idea di rendere le donne figure di contorno e quasi di disturbo a questo mondo che è maschile senza essere maschio è buona, ma non viene sviluppata.
Molti aspetti dei personaggi reali vengono ignorati e la nascita di uno dei movimenti artistici più significativi del secolo breve si perde nel conformismo. 
Peccato... ma la rivoluzione esistenziale non può essere mostrata con le stesse luci che si userebbero per un film di James Ivory.

Nota di merito per la colonna sonora: accanto al bellissimo swing degli anni quaranta, il leit motiv della follia di Lucien (oltre che della madre di Ginsberg) è inaspettatamente affidato alle prime battute del terzo movimento della Sinfonia n.3 in Fa maggiore  di Johannes Brahms. 


domenica 21 luglio 2013

Riccardo III

Paolo Lorimer e Massimo Ranieri

Massimo Ranieri sta a Shakespeare come Eduardo sta a Somerset Maugham.

O almeno, questa è l'impressione che ho avuto dopo avere assistito ieri sera al suo Riccardo III.

L'Estate Teatrale Veronese è un'istituzione antica e prestigiosa che, nei suoi 75 anni di attività, ha ospitato, nella sognante cornice del Teatro Romano, artisti da tutto il mondo e ha proposto spettacoli di prosa e danza di altissimo livello. 

In questa gloriosa tradizione si inserisce Massimo Ranieri, che interpreta e dirige il dramma di William Shakespeare tradotto e adattato da Masolino d'Amico e accompagnato da musiche composte per l'occasione da Ennio Morricone. 
Sulla carta, un'operazione molto interessante: nei risultati, un po' meno. 

La delusione peggiore viene proprio dal protagonista. Ranieri entra in scena e attacca uno degli incipit più famosi della storia del teatro ma lo fa con una legnosità e una mancanza di rispetto per la prosodia che sono indegni di un attore di lungo corso. 
Per almeno dieci interminabili minuti non riuscirà a fare proprio il ritmo della frase e, per tutta la durata dello spettacolo, prenderà delle papere mastodontiche, spesso mancando di dominare la esse blesa. 
Il malvagio Riccardo, ubriaco di sangue, nella lettura di Ranieri si agita troppo e troppo mulina le braccia camminando avanti e indietro senza meta, nel tentativo di rendere truculenta una personalità già così efferata da non necessitare molto di più di quanto il Bardo suggerisca nel testo.
Capisco che non siano più i tempi di Olivier e Gielgud ma la concitazione non è efficace quanto la verità dell'accento e, quella, Ranieri l'ha mancata quasi del tutto.
Il suo Plantageneto sembra nato in casa Cupiello, anche perché nel corso della serata la cadenza partenopea sfuggirà al suo controllo in più di un'occasione. 
A sua parziale discolpa va detto che la produzione è al debutto e sappiamo come in Italia non si riesca più ad avere un periodo di prove adeguato al testo da rappresentare. Non mi stupirebbe scoprire che lo spettacolo è stato montato in tempi record.

L'altra brutta sorpresa arriva dalla parte musicale.

Chiamare Sinfonia per Riccardo III un pezzo che ricorda da molto vicino le percussioni degli Stomp (e null'altro) mi sembra eccessivo da parte di uno dei più acclamati compositori di colonne sonore al mondo. I frammenti musicali fanno da raccordo nei cambi scena e il pensiero corre all'idea della Promenade di Quadri da un'esposizione di Musorgskij. Non aggiungo altro perché sono da sempre una grande ammiratrice del Maestro Morricone.

La parte visiva invece è molto efficace. Ranieri ha affidato le scene a Lorenzo Cutuli che ha  pensato a una reggia completamente nera, composta da un semplice cilindro che ruota su se stesso e si schiude ogni volta su un ambiente diverso. Illuminato da luci bianchissime, il palco offre una cornice cupa e claustrofobica ai personaggi maschili in smoking, come a quelli femminili avvolti nei bellissimi costumi di velluto e seta cangiante, ispirati agli anni '50, di Nanà Cecchi.

Dell'intera compagnia, solo due attori regalano momenti di autentico teatro.
Paolo Lorimer è un duca di Buckingham davvero calato nel ruolo. Perfetta dizione, presenza scenica, piglio misurato, accento convincente. Il complice tradito dal malvagio re ci sta davanti in tutta la sua miseria. Lorimer ha studiato recitazione negli Stati Uniti prima e con Vittorio Gassman poi. Si vede e si sente. 
Margherita Di Rauso interpreta Margherita, la regina vedova di Enrico VI e nello sguardo allucinato della donna che ha perso corona, consorte e fortuna per un attimo ho ravvisato la folgore di Bette Davis, grazie anche a una certa somiglianza fisica. Nella scena in cui, completamente ubriaca, urla il suo dolore davanti a una Lady Anna spezzata e a una duchessa di York annichilita, Margherita è il perfetto esempio di come un'emozione possa essere trasmessa con forza dirompente senza cadere nel gigionesco. 

Ultima nota di demerito, che è quasi un gossip.
Il breve ruolo di re Edoardo IV è stato affidato a Roberto Vandelli.
Non so di chi sia stata la brillante idea di farlo recitare con lo stesso tono di voce usato da Marlon Brando ne Il Padrino, ma posso dire che il risultato è inopinatamente comico.

Don Vito Corleone seduto sul trono d'Inghilterra è uno scherzo che Massimo Ranieri, artista di chiara fama ammirato in altri contesti, si poteva e ci poteva risparmiare.









  

domenica 16 giugno 2013

La Grande Bellezza

Toni Servillo


Roma sopravvive a se stessa da migliaia di anni, portandosi in giro esausti simulacri e glorie in disfacimento. Fin dall'antichità i suoi rutilanti baccanali hanno attirato da ogni parte del mondo falene impazienti e cavallette voraci. Roma l'imperiale, la barocca, la papalina, la meretrice crudele. Roma, a cui pochi possono resistere.

C'è questo e molto altro nell'ultimo film di Paolo Sorrentino La Grande Bellezza.

Attraverso la voce di Jep Gambardella, lo scrittore di un solo libro, interpretato da un Toni Servillo al massimo della forma, il film dispiega un'umanità circense, triste e senza redenzione in una città dai contorni sontuosi. 
È la morte la grande protagonista della storia; una morte che non riesce ad essere commovente o tragica ma solo melodrammatica e gratuita.
L'eros dei protagonisti non è una pulsione di vita, quanto piuttosto una fuga disperata dal sepolcro che li chiama. Per coprire questa voce si usano la musica martellante e la conversazione vacua, il bla bla bla a cui il protagonista accenna più di una volta nel corso del film.
Un film che è lungo e lento, va detto, ma che scorre come il Tevere, pieno di putridume sotto la superficie ma ancora in grado di riflettere i raggi del sole al tramonto, per regalare allo spettatore la cartolina rassicurante della Città Eterna. 
I molti interpreti sono scelti con cura, a cominciare da una Sabrina Ferilli perfettamente calata nella parte della spogliarellista burrosa e over 40, giù giù fino a una Serena Grandi nella parte di se stessa - pietosa caricatura del giunonico oggetto del desiderio ruspante anni '80 - passando per Carlo Verdone, fallito e patetico e Isabella Ferrari finalmente senza botox in faccia e bellissima, e ci rimandano un affresco della nostra epoca. Un'epoca marchiata dall'infamia del successo a ogni costo, dalla rincorsa a una faustiana eterna giovinezza affidata ai cialtroni con la siringa. 
Jep è il nocchiero che ci guida in questo inferno metropolitano di palazzi principeschi e principesse centenarie, di nobili in affitto, di sensazioni glitterate e lo fa con l'accento disilluso di chi ha visto tutto, provato tutto, si è annoiato di tutto. 
Gambardella non scrive libri perché «Roma ti fa perdere troppo tempo», come una mondana appiccicosa. 

Lo sguardo di Sorrentino è freddo e preciso come un bisturi; non c'è compassione per le umane debolezze, non c'è il calore di Fellini, che amava i suoi personaggi, anche i più meschini.
Il regista ci dà in pasto la sua visione senza veli e senza alibi.
I numerosi frammenti di cui il film si compone, volutamente affastellati, lasciano lo spettatore con un senso di sgomento, di claustrofobia emotiva.
L'arrivo di suor Maria, che in mano ad un altro cineasta avrebbe potuto simboleggiare la salvezza, qui è confinato nell'inutilità di una penitenza dolorosa e senza eco, di cui nessuno si cura.
I cardinali sono diversi dagli altri invitati solo perché indossano la porpora anziché il lamé.

L'autore abbandona il suo distacco solo nelle inquadrature che rivelano per l'Urbe una passione senza rimedio. Sorrentino-Bigazzi (il direttore della fotografia) è una premiata ditta ormai da molti anni e questo, con Roma, è un vero ménage a trois. 

La recente visione de Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann mi ha spinta a confrontare i due mondi e i due momenti storici. Là un'America assetata di divertimento dopo gli orrori della guerra ma già avviata al baratro della Grande Depressione, qui una società che si rifiuta di comprendere che gli anni delle feste sono finiti da tempo. 

Il film regala un solo momento romantico, un piccolissimo frammento lirico: l'incontro notturno e casuale tra Jep e madame Fanny Ardant, la musa meravigliosa che gli anni non possono toccare. Ardant sorride appena e poi continua per la propria strada, lei sì Grande Bellezza Indiscutibile.

martedì 4 giugno 2013

Barack Obama, il Nobel e la Convenzione di Ginevra

Henry Dunant


Il Presidente americano Barack Obama ha stabilito, nel 2009, un singolare primato.
Nell'arco di pochi mesi si è insediato alla Casa Bianca ed è stato insignito del Premio Nobel per la Pace.
Prima di lui, altri tre presidenti avevano ricevuto lo stesso riconoscimento da Oslo: Thomas Woodrow Wilson e Jimmy Carter -democratici come Obama- e Theodore Roosevelt, che invece era un rappresentante del partito repubblicano.
A parte Carter, tutti sono stati premiati durante i rispettivi mandati e, a guardar bene nella recente storia americana, c'è da chiedersi a quale titolo. 

Nell'ultimo numero del magazine The New Yorker si legge che nei prossimi mesi Obama dovrà esprimersi in merito alla costruzione dell'oleodotto Keystone, opera faraonica che dovrebbe trasportare il greggio dai giacimenti dell'Alberta, in Canada, giù fino alle raffinerie del Golfo del Messico. 
Nelle scorse settimane il presidente ha cominciato una campagna a favore del progetto, adducendo sostanzialmente due motivi: migliaia di posti di lavoro in un momento in cui l'economia è in difficoltà e un partner commerciale, il Canada, di sicuro meno problematico dell'Iraq.
Purtroppo la realizzazione dell'impresa non è esente da grossi rischi. 
Il greggio canadese giace nelle sabbie bituminose e, per estrarlo, occorre utilizzare energia proveniente dai combustibili fossili, in quantità tale da rendere le emissioni di anidride carbonica molto superiori a quelle necessarie per l'estrazione di un barile in condizioni normali. 
La scelta è tra la soluzione ai consumi interni e l'attenzione al clima globale.

Sfortunatamente per il pianeta terra, ad Obama gli interessi economici degli Stati Uniti stanno molto a cuore e vengono prima delle problematiche legate all'ambiente. 
Vengono prima anche del destino di un popolo e sue scelte di politica estera in America Latina lo dimostrano ampiamente.

Nel 2009 in Honduras un golpe depose il presidente democraticamente eletto Manuel Zelaya e provocò una rivolta popolare, poi soffocata nel sangue. Il colpo di stato fu liquidato dagli Stati Uniti come un incidente di percorso e il nuovo governo gestito dai militari venne prontamente riconosciuto. Gli Usa revocarono l'embargo e si garantirono la permanenza nelle basi aeree presenti sul suolo hondureño. I quotidiani americani riportarono l'accaduto come «una conquista della democrazia».

Il repubblicano Theodore Roosevelt, considerato uno dei padri fondatori della nazione, scolpito nel monte Rushmore mentre osserva l'orizzonte con fiero cipiglio, è passato alla storia per la «politica del grande randello». Fu un convinto sostenitore della supremazia della razza bianca e nei suoi discorsi affermò a più riprese che i bianchi, o meglio gli europei, avevano portato progresso e civiltà in quei paesi nei quali si erano insediati. Il fatto di avere estromesso con la guerra i messicani e aggiunto il Texas all'Unione rientrava in questa ferrea convinzione, insieme al cannoneggiamento della Colombia per aggiudicarsi Panama e la relativa costruzione del canale.
Tra le sue frasi pacifiste possiamo citare: «Parla a bassa voce, ma porta con te un grosso randello: andrai lontano» e «Nessun trionfo di pace è più esaltante di un trionfo di guerra»

Woodrow Wilson, che fu presidente dal 1913 al 1921, fu il responsabile dell'invasione di Haiti e della sua conseguente rovina politica. In omaggio ai principi di democrazia e amore per la pacifica convivenza dei popoli, Wilson ordinò ai marines di sciogliere il parlamento dell'isola, perché si era opposto all'approvazione di una legge che avrebbe consentito alle industrie americane di colonizzarla; poi la consegnò nelle mani di una spietata dittatura che andò avanti per decenni. 
Incoraggiato dal successo, invase anche la Repubblica Dominicana, responsabile di essere un debitore insolvente nei confronti degli Stati Uniti. In realtà l'intento era difendere gli interessi degli americani nella lucrosa coltivazione della canna da zucchero. Quando i militari lasciarono l'isola vi insediarono Trujillo, un fantoccio feroce, che difese gli interessi dei suoi padroni con la forza fino al 1961, anno del suo assassinio frutto di una congiura. 

Infine Jimmy Carter, in carica dal 1977 al 1981, appoggiò la cruenta dittatura di Somoza in Nicaragua, che provocò decine di migliaia di morti.
Gli Usa finanziarono illegalmente la guardia nazionale del dittatore e quando l'operazione venne allo scoperto, passò alla storia come scandalo Iran-Contras.

Salvaguardare l'economia e gli investimenti dell'America è sempre stato il primo pensiero di qualunque amministrazione, democratica o repubblicana che fosse.  
La questione dei diritti umani, se contrapposta a ingenti interessi economici, non ha mai prevalso.

Neppure Barack Obama, che pure porta su di sé l'eredità storica di un popolo oppresso, ha saputo opporsi alle lobbies e alla logica del profitto.

Questo non gli ha impedito, ancor prima di avere la possibilità di dimostrarsene degno, di ricevere lo stesso premio che nel 1901 fu consegnato a Jean Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa Internazionale e ideatore della Convenzione di Ginevra per i diritti umani.     

venerdì 24 maggio 2013

Ci Salveranno le Vecchie Zie? Un Autodafé




Ogni regola ha un'eccezione.
Ogni idea è destinata, prima o poi, a una solenne smentita.

Chi mi conosce sa della mia natura onnivora e della mia predilezione per la carne, preferibilmente rossa e cruda o molto al sangue.
Mangio la selvaggina, l'agnello, il pesto di cavallo, le lumache, le rane, le ostriche e sono fermamente convinta del diritto di chiunque di uccidersi con i grassi saturi, o qualunque altro veleno, se questo gli procura piacere e godimento.
Forse tanta allegra noncuranza deriva dal fatto di portare una taglia 38 nonostante le intemperanze enogastronomiche o dalla relativa rassicurazione delle analisi del sangue. Non so.
Credo altresì che la questione etica riguardante l'utilizzo degli animali a scopo alimentare sia un problema di coscienza individuale e, come tale, dovrebbe essere lasciato alle riflessioni del singolo. Fin qui, il mio pensiero: opinabile come ogni altro.

Sfortunatamente, negli anni, mi è successo di incontrare vegani oltranzisti che, lungi dal lasciare alla mia coscienza e alla mia salute le libertà dovute, mi hanno gratificata di variopinti epiteti circa le mie abitudini alimentari. 
L'Oscar va alla frase «Non posso baciare una donna che mangia cadaveri» rivoltami anni fa da un gentiluomo ostile alle proteine nobili.
Maleducati, aggressivi, irritanti, talebani. Ne ho incontrati a decine ma... come dicevo ogni regola ha la sua eccezione, ogni convinzione può essere confutata dai fatti.

Nel mio caso l'eccezione ha un nome e un indirizzo che chiunque può visitare.

Ci Salveranno le Vecchie Zie? è un progetto nato a Parma da persone che hanno deciso di vivere, e mangiare, in modo diverso.
Per farlo hanno creato un luogo, di rara piacevolezza, che sta proprio dietro il complesso monumentale del Duomo, in cui all'ora di pranzo si possono gustare piatti vegetariani preparati in loco con ingredienti biologici, acquistare vini e cibi provenienti da piccole aziende dei dintorni selezionati con estrema cura o farsi preparare un plateau di meravigliosi formaggi francesi artigianali da portarsi a casa. 
Come se tutto ciò non bastasse a farne una tappa obbligata, qui è possibile trovare una selezione di cosmetici di stretta osservanza ayurvedica, prodotti per la pelle e i capelli realizzati con oli essenziali e ingredienti naturali così gratificanti ed efficaci da conquistare anche una consumatrice accanita di petrolati quale io sono.
I proprietari di questo rifugio dal caos giornaliero sono persone competenti, gentili e disponibili, con le quali si può parlare di tutto in un clima rilassato e amichevole. Hanno impiegato anni di lavoro e ricerca per distillare questa filosofia e il risultato è davvero degno di nota. 

Conoscono la mia natura epicurea e sanno che la superba giardiniera che acquisto lì accompagnerà un piatto di carne, ma non hanno mai tentato di terrorizzarmi con fosche descrizioni di mattatoi e se non ci provano non è per puro istinto di marketing: loro offrono un'alternativa di alto livello qualitativo e lo fanno sorridendo. Semplicemente.
Se lo desiderate possono illustrarvi da dove sono partiti e perché.
So che in questo periodo stanno lavorando a un progetto di cena ad personam nuovo e molto interessante. Invito tutti a dare una sbirciatina, anche nella pagina facebook che porta il loro nome. Ne vale assolutamente la pena. 



lunedì 20 maggio 2013

Il grande Gatsby

Leonardo Di Caprio


Baz Luhrmann ha mancato il bersaglio.

La grande, magnifica figura del sognatore romantico è assente dal suo caravanserraglio tridimensionale.
Nella tragica vita di Gatsby c'è una sfumatura di dolore inestirpabile e Leonardo Di Caprio esibisce spesso un cipiglio che mal si accorda a tanta pena.
Ammirato in altri ruoli, nonostante non mi sia simpatico, qui l'attore non riesce a commuovere e non convince. Neppure per un minuto è Jay Gatsby.
Quanto a Carey Mulligan, un bel profilo non basta a rendere l'egoismo, la fatuità, il temperamento isterico sottopelle, quelle caratteristiche cioè che da sole spingono un uomo nel baratro dell'amour fou. 
La sua Daisy è piatta e i primi piani mostrano una donna solo bella, ma lontanissima da quel fascino mortale che il personaggio deve esercitare sul protagonista e sul pubblico.
La famosa scena delle camicie, che dovrebbe essere carica di pathos, è gettata via e il suo incontro con Gatsby, a casa del cugino, non trasmette alcun brivido, per non parlare della sequenza al Plaza: imbarazzante. 
Molto meglio se la cava Elizabeth Debicki nella parte di Jordan Baker, bellissimo giunco annoiato e degna rappresentante del vuoto assoluto di idee e valori che regna nel suo ambiente. 
Quanto a Tobey Maguire, il suo Nick Carraway arriva alla sufficienza, ma in certi momenti ricorda troppo da vicino il protagonista di Moulin Rouge (al quale il regista fa un omaggio forse inconsapevole). Certo non lo aiuta l'atmosfera da baraccone in cui si muove per la maggior parte del tempo. 
Joel Edgerton è il volgare marito di Daisy e si vorrebbe venisse da una delle grandi famiglie americane... Se poi fosse nato nei bassifondi chissà come si sarebbe portato, visto che si siede a cena con gli stessi abiti da giocatore di polo con i quali è sceso da cavallo. 

L'America dei Roaring Twenties di F.S. Fitzgerald viene trasformata da Luhrmann in una festa mascherata, che si potrebbe tenere in una discoteca di Rimini in agosto e, in effetti, la musica è quella lì. Tutti gli stereotipi del periodo sono rappresentati sfarzosamente ma il tutto si esaurisce in un'orgia di colori e suoni. Creare un prodotto inutilmente patinato da uno dei capolavori della letteratura del XXº secolo non era facile (e nemmeno auspicabile) ma questo è il risultato ottenuto. 

Dopo il fiasco del tedioso Australia, Luhrmann continua in una parabola discendente che pare inarrestabile.
Dove è finita l'ispirazione che ci aveva fatto tutti quanti innamorare di Satine? 

lunedì 29 aprile 2013

Viaggio Sola

Margherita Buy


Ieri sera ho assistito a un piccolissimo miracolo.
Ho visto un film italiano in cui una quarantenne senza marito e senza figli non viene dipinta come una nevrotica depressa sull'orlo del suicidio, ma come una donna equilibrata e felice, che ha compiuto una scelta di vita e la porta avanti senza proclami, senza isteria, senza manifesti post femministi. 
Artefice dell'avvenimento è Maria Sole Tognazzi con il suo Viaggio sola.  

Margherita Buy è Irene, di professione ospite a sorpresa in hotel di lusso e resort esclusivi, incaricata di valutare gli standard di qualità con occhio inflessibile.
Della sua vita privata sappiamo poche cose: c'è Silvia (Fabrizia Sacchi), una sorella sposata e madre di due figlie e c'è Andrea (Stefano Accorsi) un ex fidanzato con cui ha un bel rapporto di amicizia complice.
A Irene piace la propria vita ma ascolta con molta pazienza le prediche della nevrotica sorella, che la vorrebbe sistemata come lei in un matrimonio tutto noia e niente sesso: va detto che se ti sei sposata con uno che ha la verve di Gian Marco Tognazzi, forse è inevitabile...
Andrea è anche lui un quarantenne single e senza prole, a cui però nessuno fa prediche e che si trova all'improvviso coinvolto in una relazione complicata...
A mescolare le carte arriva un personaggio fuori dagli schemi (un cameo dell'attrice Lesley Manville) che indurrà Irene a riflettere sul significato della bella e desueta parola intimità.

Questi gli ingredienti principali di una storia che esce dallo stereotipo corrente in cui la famiglia viene proposta come unica soluzione per raggiungere la felicità. 
Tognazzi è perfetto nella parte del marito a cui avveleneresti il caffè e Accorsi, sempre molto uguale a se stesso, rappresenta bene quell'indeterminatezza del maschio attuale, sempre indeciso tra adolescenza e machismo.
La Buy smette i toni costantemente esagitati che caratterizzano i suoi personaggi e ci regala una donna normale, che ha consapevolmente messo la propria libertà, quella che altri definiscono egoismo, al centro delle proprie scelte.
La metafora del viaggio e dell'altrove, espediente comune nel cinema, viene qui utilizzata per rappresentare l'Io della protagonista che non è in fuga da qualcosa, ma che desidera un'esistenza sospesa, eternamente mobile, che non si cura del futuro e che trova nelle maestà delle montagne e nei bazaar marocchini quella leggerezza che tante, troppe vite hanno smarrito nelle pastoie borghesi di un percorso «come si deve».
È un piccolo film, ma in un momento storico di recessione barbarica, nel quale le donne vengono mostrate secondo l'antico modello o madre o puttana,  forse se ne sentiva il bisogno.


domenica 28 aprile 2013

Nella Casa




Allen, Bergman, Hitchcock.
Sono questi i primi nomi che vengono in mente guardando l'ultima fatica di François Ozon. 
È infatti ricco di rimandi e citazioni, dedicati ai tre mostri sacri, questo bel film scritto dallo stesso regista e ispirato al lavoro teatrale El chico de la última fila, dello spagnolo Juan Mayorga.
In bilico tra thriller psicologico e commedia grottesca, è la storia di un rapporto pericoloso tra professore ed allievo, dove gli equilibri di potere tra mentore e discepolo si perdono fino a capovolgersi completamente. 
Fabrice Luchini, (già interprete per Ozon del delizioso Potiche) è Germain, un professore di letteratura che ha dovuto rinunciare alla carriera di scrittore per mancanza di talento.
Ernst Umhauer è Claude, uno studente che viene dalla periferia, con uno spiccato istinto per l'affabulazione. 
L'incontro tra i due mette in moto una partita a scacchi eccitante quanto rischiosa.
Claude desidera introdursi nella casa e nella vita del suo compagno Rapha (Bastien Ughetto) per assaporare le dolcezze della vita borghese ma soprattutto per poter incontrare la bella madre di lui: per riuscirci, si offre di aiutare Rapha con lo studio della matematica. 
Quando Germain chiede ai ragazzi di descrivere in un tema il loro ultimo weekend, Claude narra della sua prima visita a Rapha e lo fa così bene da catturare immediatamente l'interesse del professore e di sua moglie Jeanne, una gallerista che deve fare i conti con la crisi, interpretata da una Kristin Scott Thomas algida e allenianamente  nevrotica. 
Nella parte della musa di Eros troviamo Emmanuelle Seigner, più florida del solito e molto a proprio agio nel rappresentare la moglie annoiata e pronta alla schermaglia (vera o immaginata?) con il diabolico adolescente.

Intorno al quartetto in viaggio verso le rispettive perdizioni si muovono gli altri personaggi e tutto il meccanismo funziona in un crescendo rossiniano di realtà, proiezione, onirico e fantasia dove Thanatos è solo un gioco.
I piani di lettura sono molteplici ed è il background dello spettatore che sceglie cosa vedere nel rapporto tra arte, creatività, passato e presente nelle opere della galleria (uno degli spunti satirici meglio riusciti), piuttosto che nella letteratura ottocentesca o nella realizzazione di un film.
Quando Germain appare fisicamente in una scena che è frutto della sua immaginazione il fantasma di Bergman sorride nella penombra e possiamo immaginare la sorniona soddisfazione di Hitch per il sincero tributo al suo capolavoro La finestra sul cortile
Quanto ad Allen e al suo Match Point pensiero, non è il caso di rovinare la sorpresa... 
Fabrice Luchini si conferma l'attore più interessante del panorama francese. Il suo professore, frustrato dall'insuccesso del suo unico libro, che riversa sull'allievo (il figlio desiderato e mai avuto) le proprie ambizioni di scrittore, è una rappresentazione paradigmatica dell'uomo in cerca di quel riscatto che il giovane e disincantato Claude non potrà né vorrà portare a compimento. 

La domanda che Ozon sembra farsi (e farci) potrebbe essere: serve qualcuno per manipolarci o siamo già le vittime predestinate delle nostre ossessioni? 

  

venerdì 29 marzo 2013

La Frode

Richard Gere


Nessuna azione è priva di conseguenze.
Occorre essere pronti a pagare il prezzo dei propri errori.
Non sempre il castigo che segue al delitto è quello che ci si aspetterebbe.

La Frode, scritto e diretto dal trentatreenne Nicholas Jarecki, è un thriller ambientato nelle atmosfere ovattate dell'alta finanza newyorchese.
In quel mondo patinato e perfetto, dove filantropia e cupidigia convivono sotto lo stesso trench, non ci sono innocenti e tutti perseguono un fine, senza curarsi di quanto sia ignobile il mezzo per arrivarci.

Richard Gere è Robert Miller, un tycoon all'apice del successo, che ha un'invidiabile famiglia, immensi privilegi e un'amante francese, bella e cocainomane: nella settimana del suo sessantesimo compleanno, durante un'importante transazione d'affari, il Fato cambierà per sempre la sua vita.
Tim Roth è un poliziotto ambizioso e sarà lo strumento di cui si servirà il Destino per rimescolare le carte.
Susan Sarandon è una moglie tradita che coglierà l'irripetibile occasione offertale dal Caso.
Laetitia Casta è la donna nel posto sbagliato al momento sbagliato (e vittima in primo luogo di un doppiaggio atroce).

Narrato come una moderna parabola, il film è asciutto e in certi momenti rimanda a Wall Street di Oliver Stone, con le stesse luci fredde e le riprese campo lungo/controcampo.
Richard Gere è bravo, anzi molto bravo e presumo abbia in soffitta un ritratto che si deteriora al suo posto. La maturità dona al suo aspetto e anche alla sua recitazione, tempo dieci anni e potrebbe stupirci con un Oscar.
Roth ricalca la propria interpretazione nella serie Lie to me ma riesce comunque a creare un personaggio respingente e per il quale non si tifa.
La Sarandon si diverte a fare la donna sofisticata e paziente che in silenzio tesse la sua tela mentre madamoiselle Casta, nella parte della fanciulla nevrotica e sensuale, si limita ad essere molto decorativa, dimenticandosi che un film non è un servizio di moda.
In questo gruppo rintrecciato c'è una terza donna: è Brooke, figlia di Robert e sua socia in affari, ben interpretata da una strabica fascinosa, Brit Marling.

La Frode spinge lo spettatore a riflettere sui temi della colpa, del tradimento, dell'innocenza e della verità: essendo defunti Pollack, Hitchcock, Bergman e anche Truffaut, non credo si possa chiedere molto di più al cinema d'oggi. 




venerdì 22 marzo 2013

Uomini da Evitare come il Botox (Parte III)



«Per abolire la prostituzione bisognerebbe abolire gli uomini»  Maria Teresa d'Asburgo

Qui siamo nel campo della pandemia e a questa categoria maschile è praticamente impossibile sfuggire, prima o poi arriva nella vita di tutte...

L'estimatore della peripatetica

La totalità delle signore giura che no, il proprio fidanzato/marito/amante non lo fa e la quasi totalità delle signore sbaglia, sapendo più o meno consciamente di sbagliare.

Il fascino della professionista è universale, eterno, ancestrale.
Ella tranquillizza il fragile ego degli XY come nient'altro al mondo perché nulla chiede, nulla pretende, tutto concede (contro giusta mercede) e per di più adula e blandisce.
Quale moglie/compagna/fidanzata può garantire altrettanto in qualunque momento?

Anni fa, dopo una love story finita a coltellate, frequentai sotto mentite spoglie un forum di escortisti.
Mi si aprì un mondo sconosciuto.
Scoprii che in giro c'erano uomini dai 18 ai 70 anni e oltre che descrivevano con maniacale precisione le prestazioni delle fanciulle in catalogo, con tanto di voti nelle varie sezioni e scambi di opinioni e consigli.
Erano studenti, impiegati, liberi professionisti, pensionati e perfino disoccupati (con cosa pagassero non si sa, visto che le signore in questione non fanno mai credito).
La cosa più stupefacente non era la trasversalità della pratica, (in gran parte si trattava di uomini con relazioni stabili, mogli, figli, nipoti), bensì l'aria di assoluta normalità e quotidianità che si respirava nelle alate conversazioni.
Nessun rimorso, nessun senso di colpa, nessuna preoccupazione per la salute della partner ufficiale da parte di uomini disposti a spendere 100 euro in più per avere rapporti non protetti.
Mi sforzai di capire cosa ci fosse dietro questo universo.
L'epoca nella quale le «brave ragazze» si mantenevano illibate per il marito e l'iniziazione sessuale maschile doveva passare dai bordelli era finita da 60 anni... Che cosa non era cambiato nel frattempo?
Il risultato delle mie indagini fu il seguente: gli usi e i costumi sessuali delle donne non hanno la minima importanza per gli uomini.
Semplicemente, loro cambiano per il gusto di cambiare e prediligono le prostitute perché con loro possono sentirsi uomini veri e possono esercitare un predominio assoluto e incontrastato a un costo ragionevole.
Bionda, bruna, rossa, alta, magra, formosa, efebica, giovane, matura, brasiliana, estone, cinese... Come la fiorentina dal macellaio, ogni volta tagliata secondo necessità. 
Ti attira una ragazza che porta la settima di reggiseno? Voilà! 
Oggi ti punge vaghezza della nordica alta 185 cm? Nessun problema. Mano al portafoglio e via, basta trovare una scusa con la legittima e fare attenzione alle tracce di DNA.

Ma analizziamo più da vicino il fenomeno.
Una escort (a differenza di una fidanzata) apprezza i tempi brevi o brevissimi di una prestazione sessuale, e un cliente disposto a sborsare centinaia di euro per un paio d'ore fatte soprattutto di chiacchiere, è una gallina dalle uova d'oro. 
Se le misure vitali del cliente sono modeste la signorina anziché risentirsi apprezza, poiché così non si stropiccia troppo la mercanzia. 
Una bella di giorno non si lamenta dell'aspetto fisico del cliente e per quanto lui possa risultare repellente, lei sorride stoica, pensando al fee.
Una professionista che si rispetti è sempre perfettamente in linea con i desideri dell'utenza e se piace a vossignoria può diventare qualunque cosa, dalla bambina con le treccine e l'orsacchiotto alla mistress con stivaloni e frustino, a volte nello stesso pomeriggio.
Una call girl non va conquistata, affascinata, intrigata: si mettono i soldi sul comodino e da quel momento qualunque sciocchezza esca dalla bocca del cliente viene trattata come l'oracolo di Delfi.
Quello che gli uomini preferiscono ignorare è che le mondane (in questo del tutto simili alle borghesi «perbene») sparlano senza pietà e non potrò mai dimenticare le risate che mi feci al telefono con una di loro che avevo contattato con una scusa.
Era una ex studentessa universitaria dotata di un sense of humour al vetriolo, che mi aveva divertita fino alle lacrime con le descrizioni di certi incontri (corredate ovviamente di nomi e cognomi, perché vorremo mica credere che siano anche discrete).
Diceva che gran parte dei suoi clienti, disposti a sganciare 1000 euro per averla una notte intera, erano dei patetici uomini di mezz'età dalla virilità discutibile, che si illudevano di procurarle fantastici orgasmi e che lei faceva costantemente sentire come dei superdotati stalloni, a cui avrebbe concesso i suoi favori anche senza regalie. Aggiungeva, con un filo di cinismo, che sicuramente le loro mogli si consolavano da tanta inadeguatezza con il maestro di tennis venticinquenne. Gratis. 
Le avevo chiesto cosa l'avesse spinta a scegliere questo business fra i tanti e la sua risposta era stata disarmante: «Le donne fanno del sesso mediocre e quando hanno finito devono rassettare la casa, far fare i compiti ai figli, correre al lavoro, per di più facendo attenzione a non sbattere le corna contro il soffitto. Io faccio del sesso mediocre e fra cinque anni avrò abbastanza denaro per trasferirmi all'estero e vivere quasi di rendita.»


Nota del redattore:
Le questioni etiche di questo argomento vastissimo e per certi aspetti molto doloroso, sono state qui volutamente ignorate.
Sono conscia che la sensibilità di alcune lettrici potrebbe esserne urtata, e me ne scuso. 




domenica 10 marzo 2013

Una Guerra Senza Vincitori





Nella settimana in cui il Presidente Barack Obama ha firmato il Violence Against Women Act, il periodico Internazionale ha dedicato la copertina alla piaga globale della violenza contro le donne. Rebecca Solnit, scrittrice statunitense di cui la casa editrice Fandango ha tradotto e pubblicato nel 2009 Un paradiso all'inferno, ci regala una panoramica agghiacciante sulla condizione femminile del XXIº secolo.
«In tutto il mondo le donne tra i quindici e i quarantaquattro anni hanno più probabilità di essere menomate o uccise dalla violenza maschile che dal cancro, la malaria, la guerra e gli incidenti automobilistici messi assieme». Sono le parole di Nicholas D. Kristof, giornalista del New York Times, due volte vincitore del Premio Pulitzer nonché una delle poche firme importanti ad occuparsi della questione.
Dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, all'India, all'Egitto, alla Cina gli stupri e gli omicidi di donne dall'infanzia all'età adulta si sono moltiplicati nell'indifferenza generale.
Gli organi di informazione si occupano soltanto dei casi più eclatanti o morbosi, lasciando cadere nel silenzio il destino di milioni di donne percosse, violentate e uccise spesso tra le pareti domestiche dai loro mariti, fidanzati o ex.
Negli USA ogni 6 minuti viene denunciato uno stupro, ogni nove secondi una donna viene picchiata e si calcola che le aggressioni siano due milioni all'anno (le ferite così riportate sono la prima causa di ricovero ospedaliero per mezzo milione di donne). Nel corso della propria vita una donna su cinque è vittima di una violenza o di un tentato stupro.
Nelle forze armate americane le soldatesse durante le missioni all'estero sono in balìa dei colleghi e dei superiori, spesso senza via di scampo quando si trovano a bordo delle unità navali. 
In India il fenomeno è endemico, ma se ne parla solo quando uno stupro di gruppo ai danni di una ragazzina su un autobus gremito fa aumentare lo share al telegiornale del prime time, perché la vittima è morta.
Nelle proteste di piazza in Egitto le giovani vengono circondate da gruppi di uomini, denudate e abusate sotto gli occhi di tutti, mentre a pochi metri di distanza si chiedono a gran voce giustizia e libertà.
In Inghilterra su 78.000 stupri stimati ogni anno ne vengono denunciati 16.000 (appena il 20%). Le donne tacciono per la paura di ritorsioni, per tutelare familiari e amici, perché ricevono pressioni esterne, perché temono una sentenza negativa, perché vogliono dimenticare.
In totale le condanne arrivano a poco più di mille l'anno.
Questo significa che nelle strade circolano liberamente migliaia di uomini violenti che purtroppo non sono riconoscibili da lontano.
Nel 2012 in Argentina, un paese che ha ancora una forte impronta patriarcale, gli omicidi di genere all'interno della famiglia sono stati cinque alla settimana. Una carneficina.
In Italia non va meglio, qui il delitto d'onore è un ricordo ancora fresco, il matrimonio riparatore una pratica di cui tutti abbiamo memoria e la legge che ha definitivamente archiviato il famigerato Codice Rocco, modificando il reato di stupro da delitto contro la morale pubblica a delitto contro la persona, è del 1996.
Leggi insufficienti, condanne lievi, nessuna protezione per le vittime, discriminazione sul posto di lavoro e soprattutto una assoluta mancanza di cultura del rispetto della donna fin dall'infanzia, hanno portato ad una situazione di emergenza mondiale.
L'inchiesta di Rebecca Solnit occupa 10 pagine, scritte volutamente con un linguaggio crudo, perché è ora di smetterla di usare eufemismi per descrivere la violenza, perché dobbiamo farla finita con la politica del controllo del corpo e della vita delle donne.
Essere abbordata per la strada da un uomo che crede di avere il diritto di accoltellarti a morte perché si sente respinto non è un problema delle donne. È un problema di diritti umani, di diritti civili, un'ingiustizia che ci riguarda tutti. 
Solnit fa una riflessione importante: i matrimoni gay sono ferocemente osteggiati dai conservatori per un unico motivo... si tratta di un'unione tra pari senza ruoli prestabiliti. 
I movimenti femministi sono visti come un tentativo di sottrarre agli uomini potere e privilegi, come se potesse esserci solo un vincitore.
In quanti Paesi lo stupro coniugale non è reato? 
Il Presidente Obama ha fatto un passo importante in questa direzione e il primo dovere degli uomini e delle donne che non vogliono chiudere gli occhi davanti a questa tragedia è quello di parlarne: ai bambini e alle bambine. 
Al primo spintone all'asilo, alla prima attenzione non richiesta al liceo, le ragazze devono sapere, senza se e senza ma che nessuno, mai, in nessun luogo e per nessuna ragione ha il diritto di accampare pretese sul nostro corpo e sulla nostra volontà.  
Senza questa consapevolezza non possono esserci libertà e giustizia. Per nessuno di noi. 

sabato 9 marzo 2013

Upside Down

Kirsten Dunst e Jim Sturgess


L'amore è talmente raro e trovarlo è così difficile che qualche volta bisogna andare a cercarlo in un altro mondo.

Upside Down narra la favola di due pianeti tanto vicini da potersi toccare e uniti da una doppia gravitazione. Le leggi fisiche che governano i due mondi impediscono ai rispettivi abitanti di mescolarsi tra loro, poiché tutta la materia viene attratta inesorabilmente verso il centro di gravità del pianeta da cui proviene. 
Come in ogni fiaba che si rispetti, i potenti del Mondo di Sopra sfruttano senza pietà le risorse dei derelitti del Mondo di Sotto.
Ed è qui che fanno irruzione Romeo e Giulietta.

Adam è un ragazzino del mondo depredato che vive in un orfanotrofio.
Eden è una bambina bionda e bellissima che abita nel ricco pianeta dove splende sempre il sole.
I due si incontrano ai confini tra le rispettive nuvole e fatalmente si innamorano; altrettanto fatalmente vengono separati e Adam trascorrerà dieci anni della propria vita nella convinzione che Eden sia morta. Quando scoprirà la verità sfiderà le leggi dell'universo per ritrovare il suo paradiso.

Upside Down ammicca a Metropolis di Fritz Lang, senza avere la presunzione di avvicinarsi a un tale capolavoro.
Juan Solanas, autore della sceneggiatura oltre che regista, costruisce un mondo (anzi due) sovvertendo i principi della fisica; effetti speciali e scenografie sono al servizio di una metafora sulla trascendenza dell'amore che non è appesantita da troppa retorica.
I cieli tempestosi, le montagne e le foreste immerse in una luce irreale, la sala da ballo in cui si danza tanto sul soffitto quanto sul pavimento, gli uffici spersonalizzanti di Transworld (la società che gestisce i rapporti tra sotto e sopra) sono allegorie del destino avverso, della ricerca del Graal, dei pericoli che l'inseguimento della felicità porta sempre con sé.
Jim Sturgess è l'impavido Adam, cacciato lontano dal suo paradiso e disposto a tutto pur di riaverlo. Spettinatissimo per tutto il film, anche quando è in giacca e cravatta, impersona il moderno cavaliere senza macchia con una certa baldanza e in alcuni momenti riesce ad essere esilarante. 
Eden ha le deliziose fattezze di Kirsten Dunst, l'unica attrice di Hollywood a non essersi raddrizzata i denti e ad avere perciò un sorriso autentico. Chiamarsi Paradiso può risultare impegnativo per molte ma per lei, che ha tenuto testa a quel disadattato di Spiderman, sarà stata una passeggiata. Qui è una fanciulla bellissima senza memoria del suo amato che sogna spesso una felicità perduta ma che non esiterà, una volta destata dal suo sonno, a battersi con coraggio per ritrovare Adam e per dar vita con lui ad un universo differente.
Timothy Spall, attore britannico già interprete di Otello e Macbeth a teatro, recentemente ammirato nei panni di Churchill ne Il discorso del re, è il nume tutelare dei ragazzi innamorati e sarà lui a escogitare la soluzione per il lieto fine.
Mitologia, Shakespeare, espressionismo. Solanas mescola molte suggestioni ma lo fa con leggerezza, aprendo alla speranza di un radioso futuro. E in questi tempi bui, come non essergli grati? 

  

martedì 5 marzo 2013

Noi Siamo Infinito

Logan Lerman

I giovani offrono grandi opportunità a chi li sa ascoltare.

Noi siamo infinito è un film che mai e poi mai sarei andata a vedere se non ci fosse stata di mezzo una ragazza a proporlo.
Senza avere visto il trailer, mi aspettavo un paio d'ore di cose già viste e già sentite condite da musica banale. 
E invece... 
Stephen Chbosky ha sceneggiato e diretto un proprio romanzo, trasformandolo in un affresco su quel mondo a volte incomprensibile in cui abitano i ragazzi ai tempi del liceo.

Logan Lerman è un attore che non conoscevo e che mi ha positivamente impressionata: dotato di uno sguardo intenso e di un sorriso contagioso, veste i panni di Charlie, un ragazzo introverso che convive con una famiglia distratta e che si ritrova catapultato nella nuova scuola senza uno straccio d'amico.
Charlie è ahilui molto intelligente, adora i libri e ha un vero talento per la scrittura; il suo professore di letteratura se ne accorge in fretta e sarà il primo a entrare in contatto con lo spirito inquieto del ragazzo. 
La volitiva Sam (Emma Watson) e il tenebroso Patrick (Ezra Miller) sono fratellastri e saranno loro a strappare Charlie alla crudele solitudine che solo gli adolescenti possono infliggere e infliggersi...
Intorno al trio gravitano personaggi molto divertenti e il film, ambientato all'inizio degli anni '90, ha un alto tasso di verità.
La Watson, spogliata dalle palandrane di Harry Potter, è bella senza essere appariscente e brava senza voler strafare nel far dimenticare il personaggio che le ha dato fama planetaria.
Credo che in futuro ci regalerà belle cose.
E poi c'è lui: Patrick, al secolo Ezra Miller. Come io possa averlo ignorato finora, non me lo spiego. Classe 1992 ma con una lunga esperienza alle spalle, anche come musicista, Miller impatta lo schermo in modo impressionante. Con un volto in cui si mescolano tratti orientali, arabi, persiani in un risultato visivo di raro fascino, il ragazzo recita benissimo, con una naturalezza da attore consumato. Nella scomoda parte di un gay che frequenta il macho della scuola, Miller sorride, ama, soffre con l'energia propria dei diciottenni.
Se non si perderà, sentiremo parlare di lui a lungo e bene.

Senza essere pretenzioso, senza voler scimmiottare altre pellicole blasonate, senza ammiccare a «O Capitano, mio Capitano!» Chbosky ci racconta una storia semplice, a tratti commovente e drammatica e la sostiene con una colonna sonora scelta con gusto infallibile nel rock e nel pop dei tardi anni '80.
In una conversazione tra Charlie e il professore si svela una frase che da sola paga il prezzo del biglietto: «Noi accettiamo l'amore che pensiamo di meritarci».

Ringrazio le due persone che mi hanno invitata alla proiezione. A volte noi quarantenni abbiamo bisogno di qualcuno che dia una spolverata ai nostri preconcetti. 

sabato 23 febbraio 2013

Anna Karenina





Dal 1911 ad oggi le riduzioni cinematografiche e televisive del romanzo di Lev Tolstoj, Anna Karenina, sono state una ventina.
Il personaggio della sfortunata moglie fuggitiva è stato interpretato da donne dalla fragile venustà come Greta Garbo, Vivien Leigh e Sophie Marceau. 
Difficile quindi pensare che qualcosa di nuovo potesse essere messo in scena ma Joe Wright offre un inaspettato punto di vista: la vita e il teatro sono la stessa cosa e l'una non potrebbe esistere senza l'altro.
È quindi il palcoscenico di un teatro ottocentesco con le sue quinte, i sipari, i meandri che si snodano sotto la superficie ad essere il filo conduttore della storia.
I personaggi si muovono in continue dissolvenze tra interni ed esterni, tra neve e locomotive, campi da coltivare e matrimoni da salvare.
Si ha la sensazione di assistere ad un progressivo schiudersi di matrioske che rotolano verso la tragedia, al ritmo della bellissima colonna sonora del premio Oscar Dario Marianelli. 
Anna ha la diafana bellezza di Keira Knightley, già vista nelle precedenti opere di Wright «Espiazione» e «Orgoglio e Pregiudizio»: qui si muove come trasognata nella trappola dell'amore in cui è incautamente caduta e recita con molta misura, senza indulgere in troppe crisi isteriche. Anna non si giustifica mai, non si nasconde, è consapevole di avere infranto le regole del suo ambiente e che per quel peccato non esiste perdono. In alcune inquadrature il prognatismo della mandibola è un po' troppo evidente ma il personaggio non ne soffre...
Un Jude Law invecchiato e senza fascino impersona Karenin, più che mai uomo del suo tempo, noiosamente prevedibile.
Come coppia male assortita i due funzionano benissimo; lei è bella, insofferente alle convenzioni e annoiata da un matrimonio senza passione. Lui è un burocrate concentrato sulla carriera che considera la moglie un delizioso oggetto decorativo. È fatale che il primo azzimato militare che passa di là risvegli i sensi di Anna, gettandola in un abisso di perdizione senza rimedio. 
Sulla scelta di Aaron Taylor-Johnson per il personaggio del conte Vronskij nulla da eccepire, è adeguatamente vacuo, ma  sarei stata più d'accordo se non lo avessero proposto con un'acconciatura  degna di Shirley Temple, francamente poco adatta ad un uomo dai capelli e dall'incarnato scuri come i suoi. Scegliere un attore biondo a me sembra più facile.
Per il resto, riesce a farsi odiare meno dei suoi predecessori e c'è sempre una vena di tristezza nel suo sguardo, come se foschi presagi lo attraversassero. Non si ha veramente la sensazione che sia stanco di Anna, che voglia fuggirla come un amante troppo sazio. Rispetto all'antipaticissimo Sean Bean, visto nella versione diretta da Bernard Rose del 1997, che torturava con sadico piacere una disperata Sophie Marceu, questo conte è quasi tenero. 
Domhnall Gleeson è un ottimo Kostantin Levin, innamorato perso di Kitty e così dignitoso nel suo dolore di pretendente respinto da ispirare nel pubblico femminile molta simpatia.

I costumi sono splendidi e la fotografia coglie efficacemente le atmosfere teatrali e soffocanti della storia.
Nell'ultima scena, il bellissimo volto di Anna e i suoi occhi spalancati fissano il vuoto e l'oscurità. Dalle rotaie dove ha scelto l'unico castigo possibile per espiare il suo delitto, la donna sembra guardare i due figli che, immersi nella luce estiva, giocano sotto lo sguardo vigile di Karenin. 


giovedì 21 febbraio 2013

Viale del Tramonto - Sunset Boulevard -

                                       

Il 1951 fu un anno difficile per quelli dell'Academy.

«Tra Wilder, Mankiewicz, Minnelli e Cukor chi mandiamo a casa?»
«Glielo dici tu a Anne Baxter, a Gloria Swanson, a Eleanor Parker e soprattutto a Bette Davis che dovranno far meglio la prossima volta?»
«Al prossimo party cosa raccontiamo a William Holden, James Stewart e Spencer Tracy, che non sono stati abbastanza bravi?»

Nel corso dell'anno precedente erano stati girati alcuni dei film che avrebbero fatto la storia del cinema: uno di questi era ed è ancora «Sunset Boulevard».

Da subito salutato come un'aspra critica al mondo del divismo hollywoodiano, il tema è curiosamente omologo a quello di «Eva contro Eva», veritiero ritratto del cinismo imperante a Broadway e pellicola che si aggiudicherà la statuetta come miglior film.

La gestazione di «Viale del Tramonto» (per una volta fedele traduzione dall'originale) era stata molto difficile. Numerosi attori ed attrici erano stati interpellati per i due ruoli principali e per vari motivi erano stati scartati: Greta Garbo per naturale spocchia non aveva nemmeno voluto sentir parlare della cosa, Mae West a 57 anni si reputava troppo giovane (e secondo me non intendeva recitare in un film dove un uomo la snobbava), Mary Pickford voleva riscriversi le battute e Pola Negri non aveva superato il provino perché parlava ancora con accento polacco dopo trent'anni di vita negli States. 
Con gli uomini non era andata meglio: Montgomery Clift aveva firmato e poi rotto il contratto per misteriosi motivi, Fred McMurray non voleva interpretare un gigolò, Gene Kelly aveva accettato senza interpellare la major che lo aveva in esclusiva e che gli aveva quindi negato il permesso e un certo Marlon Brando era stato snobbato perché nessuno sapeva chi fosse. 
William Holden e Gloria Swanson erano in fondo alla lista; lui osteggiato dal regista e lei a riposo da tre lustri, in fondo esattamente come la protagonista della storia...

Storia che racconta in modo mirabile la discesa agli inferi della follia di un'ex diva del muto. La divina Norma Desmond.
Norma vive sepolta in una gigantesca villa fatiscente, circondata dalle sue foto e nel culto ossessivo della se stessa di trent'anni prima.
Con lei, oltre a pochi colleghi ormai mummificati, solo il maggiordomo Max (Eric von Stroheim) suo fedelissimo servitore/adoratore che ogni giorno verga finte lettere dei fans per alimentare l'illusione di Norma.
In questo clima cimiteriale, fotografato splendidamente, irrompe il giovane Joe Gillis, scrittore piuttosto fallito di sceneggiature cinematografiche.
Joe è bello, atletico, con molti debiti e pochi scrupoli.
Norma se ne invaghisce pazzamente e lo convince a trasferirsi alla villa, con grande costernazione di Max che scopriremo in seguito essere un famoso regista nonché ex marito dell'attrice. 
Comincia così una vita di segreti e bugie da parte di Joe, smanioso di fuggire ma troppo attirato dal lusso che Norma gli offre.
La diva, convinta dai sotterfugi di Max che un ritorno sul grande schermo sia imminente, si sottopone a torture estetiche di ogni tipo per essere al meglio davanti alla cinepresa e così facendo non si accorge che Joe è molto impegnato altrove... con una donna giovane e bella.
La vicenda si avvia velocemente verso una conclusione tragica: sconvolta dalla gelosia e certa che Joe la stia per abbandonare, Norma lo uccide a colpi di pistola.
Poi, convinta di trovarsi di nuovo sul set, regala agli spettatori uno dei finali più toccanti della storia del cinema in bianco e nero. 
La visione di Norma che scende lo scalone nei panni della principessa Salome, racchiude in pochi fotogrammi tutta la crudeltà della macchina tritacarne che Hollywood è sempre stata e tutta la tragedia di chi, avvezzo ad essere considerato un semidio, viene abbandonato all'oblio del tempo che passa da chi rincorre nuovi volti più fotogenici e senza rughe...
Wilder, Holden, la Swanson e von Stroheim (tutti candidati e tutti perdenti) realizzano un film perfetto sotto ogni punto di vista.
Il triangolo malato tra Norma, Joe e Max ci restituisce tutta la meschinità di una vita in cui non c'è nulla di reale. Lei vive in un mondo di illusioni creato dal regista-marito-maggiordomo, il quale si illude che Norma un giorno potrà ricambiare la sua dedizione. Joe si racconta di non essere lo squallido gigolò di una donna anziana quanto più a lungo possibile e tutti quanti si aggirano come figure di celluloide a due dimensioni.
Billy Wilder, il geniale regista di commedie come «Sabrina», «A qualcuno piace caldo» e «Quando la moglie è in vacanza» qui sperimenta per la prima volta la tecnica narrativa della vicenda raccontata dalla voce fuori campo di un cadavere. Il film si apre infatti con l'inquadratura del corpo di Joe che galleggia a faccia in giù nella piscina della villa.
Gloria Swanson, all'epoca cinquantenne, interpreta se stessa con un'abbondante dose di autoironia. Tra le più grandi dive del muto, Gloria è decisamente sul viale del tramonto e tutta la sua impostazione del personaggio, con una recitazione enfatica ed eccessiva, tradisce un ghigno beffardo e amaro al contempo. 
William/Joe è bello e cinico, spregiudicato e calcolatore ma non senza un fondo di pietà per questa donna anacronistica ed eccessiva, perduta nelle nebbie del suo mito dimenticato.
Ma il mio preferito, in questo film di giganti, è Max: l'uomo che per metà della propria vita rimane accanto alla donna amata custodendone l'altare come il più fanatico dei sacerdoti.
Sarà lui, negli ultimi istanti, a dirigere ancora una volta Norma Desmond, nel primo piano con dissolvenza più doloroso e catartico della carriera di entrambi.