martedì 25 marzo 2014

Uomini da Evitare come il Botox (Parte IV)



I Gestori delle Risorse Umane

Gestire efficacemente le risorse umane è un compito molto difficile.
Le risorse umane, in un'azienda, sono un capitale preziosissimo da valorizzare quanto più possibile. Un solo errore di valutazione e tutti gli sforzi tesi a raggiungere un dato obiettivo possono essere vanificati in un soffio.
Reclutare nuovi dipendenti e inserirli nello schema aziendale nel migliore dei modi è di fondamentale importanza. Chiunque lavori in una società con questo ruolo ne è consapevole.

Ma se trasliamo questo schema dall'ambiente lavorativo alla vita privata, cosa accade? 

La maggior parte delle volte, un disastro.
Prendiamo un XY medio: convivente, sposato, separato in casa... (che orrore) che voglia gestire un panel di risorse umane al di fuori del legame ufficiale. 
(Prima di gridare allo scandalo, chiariamo che anche le XX in situazioni analoghe hanno i loro metodi e non sono delle SanteMarieGoretti. Però di solito sono più furbe)

Orbene, un uomo decide di allacciare una liaison dangereuse con una signora/signorina incontrata, poniamo, al bar sotto l'ufficio.
Per raggiungere il suo scopo metterà in campo le strategie di reclutamento utilizzate per attrarre le risorse umane di cui sopra: qualità individuali se le possiede, oppure il capitolo 1 del Manuale ereditato dagli avi maschi della famiglia: Promesse & Gratifiche.
In un tempo ragionevole le risorse umane vanno formate e poi valutate, per decidere l'inserimento. (Astenersi battute da caserma)
Una volta piazzata la risorsa, l'XY ha due possibilità: concentrarsi su di lei per un tempo enne e poi farne (dolorosamente s'intende!) a meno, oppure mettersi a frequentare un altro bar più distante dall'ufficio (magari fuori città) e ricominciare daccapo con l'iter.
(Ripetere ad libitum)
È a questo punto che il Gestore deve dimostrare di che stoffa è fatto. 
La giornata è di sole 24 ore e tolto il tempo impiegato in attività imprescindibili, il minutaggio per ogni risorsa va attentamente valutato e ridisegnato in continuazione.

Un Gestore esperto sa che una lite furibonda può liberare spazi di ore o giorni ma deve valutare attentamente gli effetti collaterali in materia di lagne e piagnistei che, notoriamente, fanno perdere un sacco di tempo durante e dopo. Difatti questo escamotage viene solitamente utilizzato come strategia di mobbing, per spingere la risorsa ad abbandonare la postazione. 
Ma la fatica non finisce qui.

Agli albori del XXI secolo infatti, le trappole per il nostro vigoroso (si spera) seduttore sono insidiosissime.   
Una su tutte, la più micidiale, indiscreta, letale delle spie: Whatsapp.
Whatsapp è l'incubo del fedifrago. Neppure una suocera malevola riuscirebbe a tracciare la vita di un uomo con altrettanta esecranda precisione. Provate a raccontare che vi siete addormentati di schianto alle 22.30 quando l'ultima visualizzazione dice 01.37 o, peggio, un monitoraggio a singhiozzo rivela ripetuti ingressi...
Solo chi ha l'accortezza di acquistare un iPhone di ultima generazione può nascondere l'ora dell'ultimo accesso o il fatto di essere online ma se lo fa, un coro (sic!) di proteste lo investe come un treno in corsa.
«Hai forse qualcosa da nascondere?» 
«Ma no, che dici? Se avessi qualcosa da nascondere userei gli sms, no?»
Regola numero 1: se dovete nascondere qualcosa mettetela in bella vista.
Regola numero 2: se si è notoriamente intelligenti e si commette un errore stupido di solito si riesce a sfangarla ribaltando la questione sull'interlocutrice.
«Non penserai che sia così stupido da fare una sciocchezza del genere se dovessi nasconderti qualcosa»
Nella vita privata le risorse umane vogliono sentirsi dire delle cose: Promesse & Bugie preferibilmente.

La seconda trappola mortale è la chat di Facebook.
Se è vero che lì le risorse umane sono sovrabbondanti, è altrettanto vero che una presenza costante online (soprattutto in caso di panel di una certa consistenza) pone dei problemi di gestione non banali.
Sbagliare la videata nella fretta di rispondere è un attimo... E in quel caso il Gestore deve essere un mezzo genio per non soccombere all'uragano.
Le amicizie di Facebook sono un indice pericoloso e possono, di indizio in indizio, condurre eventuali indagini a conclusioni folgoranti.

A ciò si aggiungano le questioni inerenti memoria, logistica, vigoria fisica, capacità di resistere a interrogatori subdoli e sfortunate coincidenze di eventi. 
Senza contare le giornate drammatiche come Natale, le vacanze e le feste comandate.
Ho assistito a scene al limite della fantascienza da parte di Gestori oberati di risorse... 

In una società, sbagliare nella valutazione delle risorse umane e spingerle a licenziarsi equivale a bruciarsi la carriera e a rovinarsi il curriculum per sempre.

Nella vita, gli XY incapaci di gestire con sobria eleganza situazioni pericolose di rado pagano i propri errori. Semplicemente si comportano come i virus, che dopo avere devastato un habitat, si spostano su terreni più favorevoli.


(Sono consapevole che questo post mi attirerà una reprimenda da parte del mio commercialista...)






lunedì 17 marzo 2014

Lei

Joachim Phoenix

Per il suo lavoro di doppiaggio, alla versione italiana del film «Her», Micaela Ramazzotti meriterebbe di essere appesa in pubblico per i pollici, a fianco di Pier Francesco Favino: lo scempio compiuto dall'attore sul personaggio di Lincoln nella pellicola omonima è, infatti, qualcosa che ancora grida vendetta.

Perlomeno vorrei capire da quando una voce da ragazzetta petulante, afflitta dal raddoppiamento sintattico, venga ritenuta adatta a restituire un personaggio che non ha altri mezzi espressivi a sua disposizione e che non agisce a Benevento, bensì a Los Angeles.

Il regista Spike Jonze indaga l'incapacità a rapportarsi con gli altri esseri umani e costruisce una storia, ambientata in un futuro prossimo, nel quale uomini e computer interagiscono sentimentalmente. 

Joachim Phoenix è Theodore, un uomo solitario che non vuole affrontare il divorzio chiesto dalla moglie, una non troppo simpatica Rooney Mara.
L'occhialuto e baffuto Phoenix, a cui Jonze ha smorzato la fisionomia di quello eternamente disturbato, ha uno strano lavoro empatico che consiste nello scrivere lettere personali per conto di terze persone, cosa che egli fa con una certa passione.


Un giorno Theodore acquista un sistema operativo frutto di un'intelligenza artificiale in grado di evolversi.
Messo davanti alla scelta tra rapportarsi con una voce maschile o con una femminile, l'uomo opta per la seconda.
Entra così nella sua vita Lei: «Samantha».

Per due ore Jonze ci porta a spasso in una storia d'amore surreale e sorprendentemente simile alle relazioni amorose tra persone vere. 
Fra Theodore e Samantha vediamo scorrere attrazione, gelosia, passione, conflitti. Ma c'è una sotterranea sensazione di disagio in tutto ciò.
I personaggi reali coinvolti nella storia, (su tutte Amy Adams nella parte di Amy, una vecchia amica di Theodore), appaiono sbiaditi se paragonati alla brillante incorporea protagonista. Quale donna in carne e ossa potrebbe mai reggere il confronto? 

Eppure Samantha soffre nel non avere una dimensione fisica e così spinge il suo amante umano ad avere un rapporto sessuale con una sconosciuta ragazza che possa fare da tramite.
L'insolito ménage a trois si rivela fallimentare e la liaison al silicio mostra le prime crepe, fino al prevedibile epilogo.

Il talentuoso Joachim Phoenix ha dalla sua una faccia inquietante, che in film come «Il Gladiatore» o  «The Master» risultava efficace. Nella parte di un single depresso che vive in un bellissimo appartamento deserto e molto sospira durante la notte, è un po' sprecato.

Da un'idea interessante, il regista ricava un film che non convince.
Mostrare le conseguenze della fine di un matrimonio attraverso esperienze grottesche veniva meglio a Ingmar Bergman.
Raccontare il futuro tra uomo e macchine dopo Ridley Scott e il suo «Blade Runner» è molto difficile.

«Lei» è stucchevole e il doppiaggio di Samantha (oltraggioso) lo avvicina al confine tra fastidio e tedio.

Nella versione originale è Scarlett Johansson a prestare la propria voce a Lei. Non ho ancora avuto occasione di ascoltarla, ma lo farò presto, non fosse che per rendere giustizia alla scelta registica. 



12 Anni Schiavo


Michael Fassbender e Chiwetel Eijofor

Saratoga, Stato di New York, 1841.

Solomon Northup è un violinista di talento, ha una moglie e due figli che lo amano.
Conduce una vita tranquilla, circondato dalla stima dei suoi concittadini.
Solomon è un uomo di colore nato libero.
Un giorno qualunque di primavera, mentre passeggia in un parco, il destino si abbatte su di lui con ferocia e l'uomo si ritrova spogliato della propria identità, incatenato e venduto al mercato degli schiavi.

Per 12 dolorosi, interminabili anni, Solomon vivrà prigioniero nelle piantagioni della Louisiana, alla mercé dei bianchi, ceduto di volta in volta ad un nuovo padrone come un attrezzo agricolo o una bestia da soma. 
Determinato a sopravvivere a qualunque costo e a riprendersi la propria vita, Solomon affronterà il dolore fisico, l'umiliazione, la perdita della dignità.
Fino a che un giorno qualunque, un incontro casuale gli restituirà il futuro. 

Il regista inglese Steve McQueen ha realizzato un film duro, con sequenze crudeli.
Ha preso una vicenda realmente accaduta, tratta dalla pagina più buia della storia americana e l'ha raccontata senza mezzi termini.
Se una certa retorica appare in controluce, nulla toglie alla potenza della vicenda.

La parte del protagonista è stata affidata a Chiwetel Eijofor, un attore britannico capace di passare con efficacia dal dramma alla commedia e già apprezzato in pellicole come «Amistad» «Kinky Boots» e «Love, actually».
La sua interpretazione di Solomon è intensa e molto fisica, fatta di primi piani e muti sguardi.
Nella metamorfosi da uomo libero a oggetto di scambio per il pagamento di un debito, Solomon piega il proprio orgoglio alla decisione di non morire.
Se il Django di Tarantino era un fiero combattente che spezzava le catene alla prima occasione, il musicista umiliato di McQueen coltiva nel silenzio una speranza incrollabile per 12 anni, fino al giorno del riscatto.
Michael Fassbender, nella parte dello schiavista Edwin Epps, ci regala un'altra interpretazione di uomo profondamente disturbato e lo fa con rara efficacia.
Bigotto e crudele al limite del sadismo, con una luce di follia negli occhi chiari, Fassbender si accanisce sui suoi schiavi per lenire i propri demoni interiori.
Ed è la piccola Patsey la sua vittima prediletta: la giovanissima e bella schiava che Epps violenta ogni notte senza che nessuno possa opporgli resistenza.
Lupita Nyong'o, vincitrice di un Oscar più che meritato, ci restituisce tutto il dolore e l'impotenza di una bambina che, per essersi procurata un pezzo di sapone che le permetta di lavarsi, viene legata a un palo e frustata con ferocia, fin quasi a morirne.
Nel cast anche Benedict Cumberbatch nella parte di William Ford, il primo padrone che compra Solomon dal cinico mercante di schiavi Paul Giamatti.

Brad Pitt, produttore del film, ha voluto per sé la parte del deus ex machina; nel ruolo dell'abolizionista canadese Samuel Bass, Pitt rintraccerà la famiglia di Solomon e lo riporterà a casa.

Solomon Northup fece sentire la propria voce e, una volta tornato libero, si batté (inutilmente) per ottenere giustizia.
La sua storia è giunta fino a noi.
Del destino di Patsey invece, nulla sappiamo... 

domenica 9 febbraio 2014

Tutta colpa di Freud

Claudia Gerini, Marco Giallini

Partiamo da un presupposto: io non amo il cinema italiano contemporaneo quando si esprime in forma di commedia.
Solitamente non gode della leggerezza e dell'eleganza della comédie francese, dello humour al vetriolo della commedia inglese o delle atmosfere inconfondibili della sophisticated comedy americana.
Ma, a volte, uscire dai propri schemi mentali può riservare delle sorprese.

«Tutta colpa di Freud», l'ultima fatica di Paolo Genovese (autore anche della sceneggiatura) è una pellicola che si segue con piacere e che strappa più di una risata.

Lo spinoso tema del rapporto tra psicanalista e paziente è trattato da un'angolazione imprevista.
Francesco (Marco Giallini) è uno psicoterapeuta cinquantenne che ha tre figlie: Marta, interpretata da Vittoria Puccini, Sara (Anna Foglietta) e Emma (la giovane Laura Adriani). 

Più strampalate e immature di così le fanciulle non potrebbero essere e ognuna incarna una precisa nevrosi, ben riconoscibile da chiunque si sia steso almeno una volta sul divano di un analista freudiano. 
Le sorelle, giovani e belle, si servono a piene mani dell'esperienza paterna per avere consigli in tema di rapporti sentimentali, sottoponendo il pover'uomo a un fuoco di fila di situazioni difficili da gestire.

Fidanzati cinquantenni che fanno inorridire il genitore, misteriose affascinanti signore a spasso col cane, fidanzate lesbiche e poco coraggiose, ladri sordomuti di libretti d'opera, uomini qualunque (leggi infrequentabili) popolano l'universo delle tre ragazze per due ore di carrellata sul mondo dei rapporti d'amore all'alba del XXIº secolo.

L'affresco che ne esce non è dei più confortanti. Spassosa e spaventosa ad un tempo la sequenza nella quale Francesco riunisce le figlie e poi illustra le tipologie XY. Risultato: gli uomini degni di essere frequentati sono il 5% del totale. Buona fortuna... Neanche Sibylle è mai stata così pessimista.

Il punto di forza del film sono sicuramente gli attori, tutti disinvoltamente calati nei rispettivi ruoli. 

Claudia Gerini e Alessandro Gassman, nella parte dei coniugi annoiati, sono tristemente simili a chiunque si possa incontrare per la via.
Marco Giallini ha, tra le altre cose, una voce bellissima e Anna Foglietta ha una recitazione molto fisica, di stampo quasi americano. 

Menzione speciale per Vinicio Marchioni: ricoprire degnamente una parte priva di dialoghi, affidandosi semplicemente allo sguardo e alla mimica non è impresa per tutti. Lui ci riesce piuttosto bene e nell'ultima sequenza, in un teatro magicamente vuoto, riesce a commuovere nella forma e nella sostanza.

Non avendo visto altri film diretti dallo stesso regista, non sono in grado di giudicare il suo lavoro inserendolo in un quadro più ampio.

Certi tempi comici potrebbero migliorare e forse qualcosa si poteva tagliare, ma nel panorama odierno di noia e inutilità, questo piccolo film, che fa pensare e sorridere, non è da sottovalutare.
Certo, non sorprende, non spiazza, non ribalta chissà quale teorema.
Ma non stiamo parlando di un qualche ponderoso capolavoro.

Last but not least, la colonna sonora, un mix di standard jazz, opera e brani moderni, è veramente degna di nota. 

L'amore è difficile, l'amore è sfuggente, l'amore è una faccenda pericolosa. 
Lo diceva Omero, lo diceva Shakespeare, lo ripeteva Jane Austen, lo hanno reiteratamente detto, scritto, recitato tutti quanti.

L'amore ti frega. Sempre.

E mettiamoci il cuore in pace. 

P.S. Se avete difficoltà a dire "ti amo"... provate ad adottare un cocker. 


sabato 25 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street

Leonardo DiCaprio



«Vendimi questa penna»
Jordan Belfort


La pluripremiata ditta Martin Scorsese & Leonardo DiCaprio getta uno sguardo sull'abisso dell'avidità oltre ogni redenzione.

«The Wolf of Wall Street» è un viaggio psichedelico nella natura perversa del potere, del denaro quando è troppo, del sesso quando è compulsivo (quindi fatto male), della droga quando ti chiedi come si faccia ad assumerne tanta.

Jordan Belfort è un giovane uomo che sbarca a Wall Street alla fine degli anni '80, determinato a sfondare nel mondo dell'alta finanza.
Spregiudicato e intelligente, divenuto broker, riuscirà a creare dal nulla una società multimilionaria vendendo titoli spazzatura ad ingenui piccoli investitori.
Diventerà favolosamente ricco e dipendente da sesso, droga e psicofarmaci, in una escalation paragonabile a un'onda anomala. Onda che lo sommergerà senza ucciderlo, perché certe persone sono inaffondabili. 

Leonardo DiCaprio ci offre un'altra magistrale prova d'attore; debordante, sopra le righe, isterica. Convincente, in una parola. 
Eppure, io non riesco a fare il tifo per lui...
Non lo faccio neppure per l'agente dell'FBI che riesce ad incastrarlo, però. 
Lontano dal sembrare un paladino della legge, Patrick Denham (interpretato da Kyle Chandler) ingenera il forte sospetto di essere un giustiziere, con il dente avvelenato per motivi personali.

Il resto del cast è di ottimo livello, con una menzione speciale per il cameo di Matthew McConaughey, assolutamente spassoso.
Jonah Hill è una spalla formidabile per il protagonista, Margot Robbie nel ruolo della seconda moglie è visivamente splendida e sexy e attorialmente efficace.
Jean Dujardin ha la perfetta faccia da schiaffi del banchiere svizzero.
Il montaggio è di alto profilo.
La colonna sonora è in certi punti sorprendente.
La macchina è perfettamente oliata, eppure...

Come ha acutamente osservato lo spettatore seduto alla mia sinistra «Stiamo ridendo delle nostre disgrazie»
Eccolo lì, il motivo sotterraneo del fastidio procuratomi dalla visione del film. 
La pellicola irride lo spettatore, ricordandogli che sta provando empatia per una categoria di individui che hanno portato la società del XXIº secolo allo sfacelo.
La profonda crisi economica che ha impoverito milioni di persone si è generata in quelle stanze, piene di uomini senza scrupoli.

Belfort non è un personaggio di fantasia come il Gordon Gekko di «Wall Street», lui ha veramente cercato di fottere il mondo (noi cioè) in ogni modo possibile.
Chiaro che la rappresentazione del Male non è il Male, quindi Scorsese non è moralmente responsabile di un bel nulla, nondimeno questa è una storia che brucia, se solo si smette di guardare al lato divertente della vita del protagonista.

Le riprese, volutamente affastellate e ridondanti, mettono lo spettatore in uno stato di stupore ipnotico, trascinandolo in mezzo a nani volanti, prostitute assortite, brokers assatanati e strafatti.
Il regista insiste volutamente sulla dimensione parossistica per 180 minuti. Troppi.

Come da tradizione Belfort cadrà nel fango, ma solo per ricominciare, perché la sete è inestinguibile, in quelli come lui. Non importa chi sarà a pagare il conto. 

Oliver Stone, nel 1987, quando tutti credevamo che la festa non sarebbe mai finita, faceva dire a Gordon Gekko: «L'avidità, non trovo una parola migliore, è giusta.»

Martin Scorsese ci ripropone il medesimo concetto 25 anni dopo, in un mondo dove la festa non può ricominciare.

La domanda è: lo abbiamo capito davvero? 

martedì 10 dicembre 2013

Blue Jasmine

Cate Blanchette


Una donna in fuga da se stessa e da una vita finita in pezzi.
Il disperato tentativo di ricominciare senza reti di protezione.
Una sorellastra che più diversa di così non potrebbe essere.
Un guardaroba tra Hermès e Chanel, unico possibile salvacondotto per il futuro.

Woody Allen ci accompagna tra nevrosi e depressioni da decenni, ma il suo viaggio è sempre stato lieve, come se lo spleen fosse un sofisticato modo di sentire, molto adatto ai newyorchesi e agli intellettuali della sinistra chic.
Nelle sue pellicole, che lui vi apparisse o no, il personaggio border line aveva sempre qualcosa di fatuo.
Ma Jasmine French è tutto fuorché una donna fatua; in lei la tragedia si respira fin dal primo fotogramma, in quella cabina di prima classe che la porterà da New York a San Francisco, in un viaggio di sola andata. Come con Caronte, verrebbe da dire. 

Spogliata della corazza che il denaro le ha sempre garantito, vittima dell'alcol e degli psicofarmaci, in balìa di ricordi troppo dolorosi per essere condivisi, Jasmine è completamente sola e altro non può fare se non cercare rifugio dalla sorellastra.

Qui, catapultata in una vita mediocre, avvicinata da personaggi che mai avrebbe pensato di trovarsi a frequentare, costretta a guadagnarsi da vivere, Jasmine ha lo sguardo dell'animale braccato.
Come in un flusso di coscienza la donna ci informa del suo passato, degli errori commessi, della vita scintillante e fasulla condotta per anni e anni. Sarebbe un personaggio antipatico se dietro non si percepissero un vuoto incolmabile e un terrore senza rimedio.
Perfino Blue Moon, la canzone che le aveva fatto incontrare il marito, suona qui come un'orazione funebre.

Cate Blanchett ci regala una interpretazione colossale e mette una seria ipoteca a un Oscar come attrice protagonista (e sarebbe anche ora che lo portasse a casa).
Il viaggio senza ritorno nella follia e nell'espiazione è reso con una forza d'urto impressionante.
Bellissima e algida come certe muse di Hitchcock a New York, isterica e fuori controllo come certi personaggi di Lars von Trier a San Francisco: le due anime della stessa donna destinate alla perdizione.

Tutto il cast è di ottimo livello ma Blanchett cattura intera l'attenzione dello spettatore. 

Allen ha creato il suo personaggio femminile più complesso e sfaccettato, facendo di Jasmine la metafora della società contemporanea, fondata sull'apparenza e sullo strapotere del denaro e ormai avviata verso la distruzione.
La splendida colonna sonora, il jazz così amato dal regista, è quasi irridente.
La riflessione sulla colpa e sul castigo, un tema caro al cineasta da molti anni, è qui indagato senza un sorriso, quasi senza l'ironia che sempre serpeggia, anche nei momenti più bui, nelle sue pellicole.
L'età che avanza sta scavando pensieri più cupi? O New York gli appare più crudele di quanto non facesse prima? 

Scopriremo che è la stessa Jasmine l'artefice della propria caduta, preda di una furia distruttrice che tutto arde e consuma.

Una tragedia greca, appunto.
C'è un particolare che dice tutto di questa donna: nelle sequenze girate a San Francisco non si separa mai dalla propria Kelly, uno status symbol imbracciato come un patetico scudo contro la crudeltà del suo presente.
Solo nell'ultima scena se ne dimenticherà, quando ormai perduta nelle nebbie di un futuro inaffrontabile, ci offrirà un primo piano difficile da dimenticare. 






lunedì 2 dicembre 2013

Venere in Pelliccia


Roman Polanski, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric



«E l'Onnipotente lo colpì
E lo consegnò nelle mani di una donna»


Un uomo, una donna, un teatro vuoto, un libro dentro un testo teatrale dentro un film.
Sono questi gli scarni elementi sui quali Roman Polanski costruisce la sua storia.
E il risultato è straordinario.

Mathieu Amalric è Thomas, un regista in cerca di un'attrice alla quale affidare un ruolo difficile.
Emmanuelle Seigner è Vanda, una dea sotto mentite spoglie.

Chiusi per 89 minuti in un teatro polveroso, tra scenografie dismesse e il rumore di un temporale, i due personaggi giocano una partita a scacchi nella quale non può essere richiesta la patta.

Thomas e Vanda: la creazione artistica, il complesso rapporto tra chi dirige un lavoro teatrale e chi deve dare corpo e voce a un personaggio si intrecciano alle figure di Severin e Wanda, i protagonisti del romanzo di Leopold Von Sacher-Masoch da cui il film, passando per una pièce teatrale di David Ives, proviene.

Come in un gioco di specchi nel quale continuamente la verità diviene finzione, Thomas e Vanda si muovono su un terreno prima ingannevolmente semplice e poi via via più cedevole, più ambiguo, più pericoloso.
Sono l'oscura palude del desiderio e delle sue implicazioni, la tentazione di annullamento nell'altro, la pulsione alla morte e al suo contrario; molti i livelli di lettura e alcuni disagevoli per lo spettatore.
La metamorfosi di Vanda, sboccata figlia delle periferie parigine è travolgente non solo per il regista che le sta davanti ma anche e soprattutto per il pubblico in sala.
La Dea che si svela come Salome e a poco a poco sorge in tutto il suo splendore è la catartica punizione della mascolinità esibita e per questo periclitante.
Ma chi è padrone di chi? Siamo davvero in grado di dominare i nostri impulsi, o ne veniamo soggiogati, trascinando con noi le nostre vittime in una caduta senza riparo?
Cosa succede all'Eros se per un momento sciogliamo i lacci della rispettabilità?
Dove conduce la brama di conoscenza?


La Seigner offre la prova migliore della sua carriera, quasi oscurando il pur bravissimo partner (un perfetto doppio di Polanski).
Matura e bella di una bellezza senza filtri, la sensuale protagonista di Frantic è qui una donna dallo sguardo spesso e fumoso, dalle forme generose, dall'appeal irresistibile.
Per 89 minuti tiene la scena senza un cedimento, in precario equilibrio tra lussuria e ironia.

Mathieu Amalric si conferma uno dei grandi attori del cinema francese.
Privo di enfasi, attento al gesto, eppure intenso e perfettamente calato nel ruolo dell'uomo denudato nel profondo.
Antipatico all'aprirsi del sipario, quando giudica Vanda basandosi sull'involucro e poi via via più sincero, più arreso alla scoperta e come ansioso di saperne di più su se stesso e la sua anima.

La regia è così perfetta che non si vede. Era dai tempi de «Il Pianista» che Polanski non realizzava qualcosa di altrettanto riuscito.
Con un budget risicato e una location fissa Polanski emoziona e fa pensare.
È chiaramente un atto d'amore verso la moglie, un regalo all'attrice, un omaggio al femminile.
Farebbe incetta di premi se non lo avesse diretto lui, se non fosse un personaggio discutibile e a molti inviso.
Ma dopo l'Oscar a Tarantino, forse non tutto è perduto.

«Venere in pelliccia» il testo originario, scandaloso romanzo che rimanda alla verità, è un viaggio nell'inconscio collettivo.
Sacher-Masoch, in forme disparate e in dosi difformi è dentro ognuno di noi.
Spesso è irriconoscibile, paludato dalla nostra coscienza castrante, zittito dal pensiero razionale, mortificato (sic!) dal quotidiano.

Ma c'è, respira, e appena può, ci parla.